100. Andrej Rubljov (1966)
di Andrej Tarkovskij
Per chi come me è imbevuto dei canoni del cinema
hollywoodiano la sfida culturale di un linguaggio cinematografico differente
come quello di Tarkovskij è difficile ma straordinariamente stimolante. Un
cinema per certi versi austero, disteso nelle fredde steppe desolate russe,
elementare (nel senso di un potente richiamo simbolico agli elementi della
natura) e disseminato di lunghi silenzi, intriso di religiosità e paganesimo,
una storia mistica, medievale, profondamente russa. Un viaggio lungo tre ore di
pellicola (io l'ho scansionato in tre serate per non appesantire la visione)
dove si può percepire la spiccata personalità del regista, una cinepresa
inquieta tra carrellate e trucchi, riprese in volo e dall'alto, singolari
inquadrature sui soli busti del cavallo ad altezza uomo. Una storia, quella
dell'iconografo Rubljov (trovo lezioso scriverlo con la "e" con la
dieresi, è comunque una traslitterazione dal cirillico), che accarezza i temi
della fede in un tempo violento, dell'ascetismo sfidato dal paganesimo rurale e
della visione del bello nell'arte sacra, supremamente raffigurato nelle pitture
del maestro russo e del suo vate Teofane il Greco. Particolarmente affascinante
l'ultimo episodio sulla realizzazione di una campana, con tono quasi fiabesco,
dove primeggiano gli elementi del fuoco e della terra.
99. Una storia vera
(1999) di David Lynch
Il Lynch che non ti aspetti, un road movie frugale e rurale
che si fa scenario della storia intima - bella e mai stucchevole - del vecchio
Alvin Straight e del suo lungo viaggio a bordo di un tagliaerba. Questa
pellicola è forse la miglior controprova per certificare la grande abilità di
un regista che non resta confinato nell'etichetta di visitatore dell'incubo;
una storia "così Disney", perfetta per esser digerita da cineasti da
zuccherificio, viene sgranata e disossata da Lynch, imperlata da dettagli gustosamente
"estranei" (i cervi finti, la casa in fiamme) e tagliata per la
memorabile interpretazione di Richard Farnsworth, all’epoca realmente malato in
fase ormai terminale.
98. Il posto delle
fragole (1957) di Ingmar Bergman
Il cinema per Bergman deve entrare "nelle stanze scure
della nostra anima". Un cinema di indagine interiore, una perlustrazione
analitica degli angoli bui per tirare fuori gli scheletri, esporli senza
possibilità d'appello. La parabola del vecchio professor Isak Borg è quella di
un compassato Scrooge scandinavo, a cui vengono rinfacciati i fantasmi dei
legami passati, presenti e futuri. Il suo viaggio verso una futile e pomposa
cerimonia accademica diviene il pretesto per una dolorosa redenzione, che si
avvale anche di incubi in perfetto stile Borges. La malinconia del ricordo si
spoglia del velo romantico, la rimozione pesa e si fa assordante, la solitudine
da beato rifugio si rivela implacabile dannazione. Il contegno del vecchio
viene assediato dalla micidiale schiettezza della nuora, dal veleno di una
coppia recuperata lungo la strada, dalla vitalità di tre giovani autostoppisti,
dal nichilismo del figlio; per Goya è il sonno della ragione a generare mostri,
ma qui la paternità appartiene al letargo del cuore.
Un film che forse ha bisogno di essere rivisto, per cogliere appieno la moltitudine di simboli, e che forse ci scoperchia un po' di sepolcri. Tutti abbiamo quel luogo della mente, tra i cespugli dei ricordi, dove un tempo nascevano fragole che oggi non ci sono più.
Un film che forse ha bisogno di essere rivisto, per cogliere appieno la moltitudine di simboli, e che forse ci scoperchia un po' di sepolcri. Tutti abbiamo quel luogo della mente, tra i cespugli dei ricordi, dove un tempo nascevano fragole che oggi non ci sono più.
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