martedì 15 settembre 2015

Top 100 FILM da vedere (dal n.100 al n.98)



100. Andrej Rubljov (1966) di Andrej Tarkovskij

Per chi come me è imbevuto dei canoni del cinema hollywoodiano la sfida culturale di un linguaggio cinematografico differente come quello di Tarkovskij è difficile ma straordinariamente stimolante. Un cinema per certi versi austero, disteso nelle fredde steppe desolate russe, elementare (nel senso di un potente richiamo simbolico agli elementi della natura) e disseminato di lunghi silenzi, intriso di religiosità e paganesimo, una storia mistica, medievale, profondamente russa. Un viaggio lungo tre ore di pellicola (io l'ho scansionato in tre serate per non appesantire la visione) dove si può percepire la spiccata personalità del regista, una cinepresa inquieta tra carrellate e trucchi, riprese in volo e dall'alto, singolari inquadrature sui soli busti del cavallo ad altezza uomo. Una storia, quella dell'iconografo Rubljov (trovo lezioso scriverlo con la "e" con la dieresi, è comunque una traslitterazione dal cirillico), che accarezza i temi della fede in un tempo violento, dell'ascetismo sfidato dal paganesimo rurale e della visione del bello nell'arte sacra, supremamente raffigurato nelle pitture del maestro russo e del suo vate Teofane il Greco. Particolarmente affascinante l'ultimo episodio sulla realizzazione di una campana, con tono quasi fiabesco, dove primeggiano gli elementi del fuoco e della terra.


99. Una storia vera (1999) di David Lynch

Il Lynch che non ti aspetti, un road movie frugale e rurale che si fa scenario della storia intima - bella e mai stucchevole - del vecchio Alvin Straight e del suo lungo viaggio a bordo di un tagliaerba. Questa pellicola è forse la miglior controprova per certificare la grande abilità di un regista che non resta confinato nell'etichetta di visitatore dell'incubo; una storia "così Disney", perfetta per esser digerita da cineasti da zuccherificio, viene sgranata e disossata da Lynch, imperlata da dettagli gustosamente "estranei" (i cervi finti, la casa in fiamme) e tagliata per la memorabile interpretazione di Richard Farnsworth, all’epoca realmente malato in fase ormai terminale.


98. Il posto delle fragole (1957) di Ingmar Bergman

Il cinema per Bergman deve entrare "nelle stanze scure della nostra anima". Un cinema di indagine interiore, una perlustrazione analitica degli angoli bui per tirare fuori gli scheletri, esporli senza possibilità d'appello. La parabola del vecchio professor Isak Borg è quella di un compassato Scrooge scandinavo, a cui vengono rinfacciati i fantasmi dei legami passati, presenti e futuri. Il suo viaggio verso una futile e pomposa cerimonia accademica diviene il pretesto per una dolorosa redenzione, che si avvale anche di incubi in perfetto stile Borges. La malinconia del ricordo si spoglia del velo romantico, la rimozione pesa e si fa assordante, la solitudine da beato rifugio si rivela implacabile dannazione. Il contegno del vecchio viene assediato dalla micidiale schiettezza della nuora, dal veleno di una coppia recuperata lungo la strada, dalla vitalità di tre giovani autostoppisti, dal nichilismo del figlio; per Goya è il sonno della ragione a generare mostri, ma qui la paternità appartiene al letargo del cuore.
Un film che forse ha bisogno di essere rivisto, per cogliere appieno la moltitudine di simboli, e che forse ci scoperchia un po' di sepolcri. Tutti abbiamo quel luogo della mente, tra i cespugli dei ricordi, dove un tempo nascevano fragole che oggi non ci sono più.

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