mercoledì 23 settembre 2015

Top 100 FILM da vedere (dal n. 82 al n. 80)



82. Tre donne (1977) di Robert Altman

Un Altman trasognato e feroce, senza ironia di scorta. La storia ruota sullo strano rapporto tra Millie, frivola logorroica che nessuno ascolta, e Pinky, ragazza di campagna vagamente inquietante e decisamente problematica.
La Spacek sembra ancora fresca del sangue di Carrie, e nella sequenza della preparazione di un (terrificante!) buffet anni '70 le esplode il pomodoro sul vestito come in una specie di ironico tributo al film di De Palma. La terza donna (da cui il titolo) è una misteriosa e silenziosa artista decorativa, incinta. Pare che Altman l'abbia aggiunta così, perché gli suonava meglio Three Women che Two Women! E’ bene sapere infatti che questo film non ha uno script, che il vecchio Bob l'aveva presentato alla Fox come il frutto di un suo lungo incubo. Quello che ci propone il regista è sempre un mondo sordo, cinico, irritante nella sua inalterabile freddezza. Ma qui risulta perfino peggiore dell'ottusa e insensibile Nashville. Ci sono in questo film piani sequenza memorabili: la visita dei due spaesatissimi vecchi genitori alla figlia in coma, la clinica che ricorda quella della Montagna Incantata di Thomas Mann; la lunga sequenza onirica in una amalgama di identità, con l'arte mostruosa della “terza donna” e la rimbombante musica di sottofondo. Un mondo gretto e sonnambulo, in dormiveglia, come immerso in un acquario (alcune inquadrature "galleggiano" tra l'aria e l'acqua) dove dominano una femminilità frigida e instabile e una mascolinità ridicola, ubriaca, fedifraga. Un lungo, doloroso, travaglio che si conclude nel gelo della morte. So cold. Shelley Duvall e Sissy Spacek sono straordinarie. Scenografie fantastiche, a partire da Dodge City, un set da film western con dietro un campo da motocross e un tiro a segno, e le piscine con i mostruosi decori sul fondo.

81. Il cavallo d’acciaio (1924) di John Ford

Epica ricostruzione dell' hell on wheels, l'odissea terrestre della realizzazione di una ferrovia che percorre gli Stati Uniti come un "lucente sentiero da mare a mare", questo stupefacente film muto è una storia nella Storia, con il tipico intreccio tra finzione romantica e realtà di fatti e personaggi, mitici e mitizzati, dell'ottocento americano. Due linee ferroviarie, la Union Pacific e la Central Pacific, cercano il loro punto di giuntura (the wedding of the rails) attraverso pianure popolate da indiani sul piede di guerra; Abe Lincoln deve scegliere se dare soldi alla guerra o alla ferrovia, e in uno dei tanti momenti di retorica americana alla 'pump and circumstance' sceglierà per il bene del progresso e della pace futura. Migliaia di lavoratori, irlandesi, italiani e cinesi, batteranno i loro lunghi martelli cantando Drill, ye tarriers drill, esposti ai rigori dell'inverno e alle frecce dei cheyenne, disposti a far finire uno sciopero - per il bene della retorica nazionale - anche solo per gli occhioni luminosi della figlia del padrone. In attesa delle mandrie, dovranno contentarsi di masticare la stoppacciosa carne di bisonte, procurata da un cacciatore d'eccezione, il giovane Buffalo Bill.
L'evolversi della Storia scorre in parallelo con lo screenplay; il giovane Davy Brandon, figlio di un agrimensore che ha dedicato la sua vita al sogno di una ferrovia transcontinentale ucciso a sangue freddo dal rinnegato Due-Dita, troverà il passaggio tra le Black Hills che consentirà all'impresario Marsh di evitare la costosa deviazione attraverso lo Smokey River e dove troverà naturalmente la vendetta per suo padre intessendo anche una classica irrinunciabile storia d'amore. L'intrepido belloccio al centro della storia è interpretato dall'ottimo George O'Brien, lo stralunato protagonista in "Aurora" di Murnau, a cui si affianca un buon cast nel quale eccelle il caratterista J. Farrell Macdonald nel ruolo del rustico irlandese caporale Casey.

80. Il grande dittatore (1940) di Charles Chaplin

Un gigante del muto come Chaplin non ha bisogno di troppe parole per ricamare una interpretazione da gotha del cinema. Qualche battuta, la lingua trattenuta al minimo indispensabile, tanta espressione e mimica per dipingere un personaggio indimenticabile, il barbiere ebreo. Una parlantina esilarante (in un tedesco improbabile) invece esce dalla bocca del grande dittatore, 10 minuti da spellarsi le mani per gli applausi, in cui un discorso fiume fonicamente incomprensibile diventa magicamente facile da capire, grazie ad una gestualità perfetta. Qui c'è solo Charlie Chaplin e non molto altro a dire la verità, ma lui da solo riempie lo schermo e il cuore. Sì, il cuore, perché il discorso finale ("Guarda in alto, Hannah!") è commovente; la lingua del barbiere timido si scioglie in un appassionato annuncio di pace alla radio che - se a qualche stolto parrà retorica - risuona come una delle poche voci coraggiose e veementi contro la guerra e contro l'antisemitismo dilagante.
Frammento di genio: Chaplin fa la barba a un cliente al ritmo della danza ungherese n.5 di Brahms. Esilarante.

Nessun commento:

Posta un commento