giovedì 3 gennaio 2019

Visioni 2018, il mio anno cinematografico in pillole

Ecco una personalissima rassegna del mio anno cinematografico (quindi tutti i film che ho visto dal 1 gennaio al 31 dicembre 2018) classificati per gradimento. Ho visto 173 film (15 titoli meno del 2017, e vabbè) iniziando con Racconto di Natale di Desplechin e terminando con Funny People di Apatow.


Cominciamo con le piccole grandi delusioni dell'anno; l'adolescenziale e piatto La quinta onda di J Blakeson, il bloody-chic Sin City di Rodriguez, il banale e chiassoso Jurassic World - Il regno distrutto di Bayona. La dimenticabilissima action comedy Una spia e mezzo con The Rock e Kevin Hart, l'usurato Zalone campione di incassi con Quo Vado? e l'irritante commedia romantica E' complicato di Nancy Meyers. Deluso da Ficarra & Picone con la loro commediola meridionale Andiamo a quel paese così come dalla pur sempre frizzante Cortellesi in Scusate se esisto; braccia cascate per il mio amato Allen e il suo flop (vabbè ampiamente annunciato) To Rome with Love, tolta la curiosità per quello che è considerato uno dei peggiori film al mondo, Showgirls di Verhoeven (sarebbe stato molto migliore con un'attrice protagonista di spessore) e delusione prevedibile pure per l'esordio in sala dei divertenti (solo sul web) The Jackal con il loro Addio fottuti musi verdi. Per concludere questo antipasto amarognolo: gran delusione da uno dei film più amati d'America, Un tipo imprevedibile (meglio noto come Happy Gilmore) con l'infiammabilissimo golfista interpretato da Adam Sandler; sbadigli per il ben poco intrigante Carne tremula di Almodovar; solo qualche sorriso a denti stretti per Idiocracy (di cui apprezzo comunque la tristemente verace allegoria...) di Mike Judge.


Piuttosto nutrita la schiera degli "almost good", quei film a cui mi sento di dare la sufficienza ma nulla più. Iniziamo con il fiabesco Il grande e potente Oz di Sam Raimi, che tutto sommato immaginavo peggio, quindi l'interminabile Intolerance di Griffith, certo stupefacente dal punto di vista scenografico ma decisamente difficile da seguire per la sua immane prosopopea. Un Hanks a mio avviso fuori ruolo guasta un poco la gangster-story Era mio padre di Mendes, mentre la consueta stravaganza silenziosa di Kaurismaki forse esaspera un po' nello statico Luci della sera. Un giovane Bergman ancora acerbo in Un'estate d'amore, di cui comunque rimane sublime la sequenza dell'arrivo della Nilsson in un'isola disabitata e sferzata dal vento. Lo strano e affascinante Io non sono qui di Todd Haynes, al quale rimprovero forse solo un po' troppa ricercatezza autoriale. Il bellissimo torbido noir insulare A bigger splash di Guadagnino, rovinato sciaguratamente dalla comparsata finale di Corrado Guzzanti che non c'azzecca niente. L'esagerato (ed eccessivamente celebrato) cupo Black Panther della Marvel. Quindi un altro giovane Bergman con Monica e il desiderio; il mezzo passo falso di Alex Garland con il fanta-thriller Annientamento e il discreto film religioso Maria Maddalena di Garth Davis, con una brava e intensa Rooney Mara ma un ridicolo Joaquin Phoenix nei panni di un Gesù con la pashmina che pare sempre catatonico. La bizzarra animazione in stop-motion di Anomalisa dell'eclettico Kaufman, il surreale (ma tanto surreale!) Swiss Army Man con il Daniel Radcliffe che non ti aspetti; un Kevin Smith meno incisivo con il simpatico ma datato In cerca di Amy. Ho rivisto senza esserne particolarmente trascinato Unbreakable - Il predestinato di Shyamalan, quindi un altro Allen piuttosto scarico con Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni. Ho preso il largo verso L'ultima tempesta di Craig Gillespie (che per me è un'ondicella se confrontato al monumentale La tempesta perfetta di Petersen) e ho fatto doccie di sangue con Snyder e il suo fascistissimo 300. Mi ha strappato qualche risata il modesto Dick & Jane - Operazione furto con Jim Carrey, sono rimasto delusissimo dall'uso della CG in Io sono leggenda che sarebbe stato un ottimo film senza quei ridicoli vampiri. Interessante il fantasy Netflix firmato Nacho Vigalondo, il bizzarro Colossal, con un'ottima Ann Hathaway. Non il miglior Fellini in Roma, film che non ho particolarmente amato. Stuzzicante a tratti The Dressmaker - Il diavolo è tornato di Jocelyn Moorehouse, scioccante e delirante Requiem for a dream di Aronosfsky. Gli spin-off di Star Wars abbassano un po' il tiro con il non riuscitissimo Solo: A Star Wars Story di Ron Howard. In un anno di buon recupero della filmografia del grande Pietro Germi, il meno interessante forse è stato L'uomo di paglia; neanche Tony Manero di Pablo Larraìn mi ha lasciato un gran ricordo. Parlando di film italiani illustri, la versione integrale di Nuovo Cinema Paradiso di Tornatore mi è sembrata davvero sovrabbondante, merito dunque al produttore Cristaldi che la ridusse rendendola più appetibile (e premiabile). Un'altra commedia made in USA non particolarmente brillante, Adventureland con un attore da me generalmente poco apprezzato, Jesse Eisenberg; quindi il tanto celebrato Perfetti sconosciuti di Genovese, originale ma non poi così trascendentale come lo hanno venduto in giro; l'elegantissimo e particolare Anna Karenina di Joe Wright e l'ipercitazionista (perfino troppo) Ready Player One di Steven Spielberg. Esordio alla regia caruccio per Chris Evans con il linklateriano Before we go, quindi il thriller alieno molto dark Under the skin con una glaciale Scarlett Johansson; un insolito film d'avventura firmato Luis Bunuel intitolato La selva dei dannati e un Richard Linklater non nella forma più smagliante con Tutti vogliono qualcosa. Un altro noir torbido girato da Soderbergh, Effetti collaterali; lo scoppiettante ma di poche pretese Ant-Man and The Wasp; un Egoyan meno convincente del solito con il parzialmente riuscito Chloe, tra seduzione e inganno e un Jason Reitman minore con la commedia aeroportuale Tra le nuvole. Tra i giganti del cinema, perfino John Huston viaggiava talvolta a marcia ridotta, come dimostra il western di sufficienza Gli inesorabili; poi ancora un Griffith d'epoca con La coscienza vendicatrice, la commediotta sguaiata e mica tanto memorabile Un mercoledì da leoni di Todd Phillips, il più recente e meno convincente della trilogia "Before" di Richard Linklater, Before Midnight; il disturbante, morboso ma nondimeno affascinante L'isola di Kim ki-duk. Ancora Tornatore con la sua Sicilia atavica e moralista in Malena, il per me deludente Dogman di Garrone (qui sì avevo grandi aspettative mannaggia) e il mezzo riuscito Soul Kitchen di Fatih Akin. A tratti stupido per quanto divertente Lo spaccacuori dei Farrelly; statico fino allo sfinimento Mine di Guaglione e Resinaro; controverso e cattivissimo Cani arrabbiati di Mario Bava e irrimediabilmente stantia la commedia anni '80 Una pazza giornata di vacanza di John Hughes. Un tocco di magia retrò con l'intramontabile Hocus Pocus della Disney, una noia spaziale con l'ultimo Chazelle, il troppo composto First Man (quanto lontani i fasti di La La Land...); qualche buono spunto nello storico avventuroso Outlaw King - Il re fuorilegge di David Mackenzie; troppa posa fotografica per La stanza delle meraviglie di Haynes; qualche risata e qualche immancabile sporadico colpo di genio di Judd Apatow nel non eccezionale Funny People.


Saliamo ancora nel mio indice di gradimento e vediamo il gruppone dei buoni film, valutabili con un 7 o un 7 e mezzo: ho rivisto con mio diletto il geniale cartoon Wallace & Gromit - La maledizione del Coniglio Mannaro, quindi il bel C'era una volta a New York di James Gray. L'ottimo spy movie Allied: Un'ombra nascosta di Zemeckis, il sorprendente esordio di Bergman in sceneggiatura con Spasimo di Alf Sjoberg. Esordio convincente dei fratelli Safdie con il noir metropolitano Good Time; poi un grande Romain Duris in Tutti i battiti del mio cuore di Audiard. Un colore e delle immagini da rifarsi gli occhi con Kagemusha - L'ombra del guerriero del divino Kurosawa; una storia particolarissima e intensamente drammatica con Una donna fantastica di Sebastian Lelio, un tuffo nei ricordi col sempreverde Un sacco bello di Verdone. Ancora Bergman (questo era l'anno del suo centenario) con il bellissimo, molto teatrale Una lezione d'amore; un thriller fantascientifico piuttosto avvincente, Looper di Rian Johnson, quindi l'indimenticabile Caro diario di Moretti e il tenero, fiabesco, giustamente premiatissimo fantasy firmato da Guillermo Del Toro, La forma dell'acqua. Un break nel documentario biografico con A conversation with Gregory Peck, un bel tuffo nell'avventura marinaresca con Heart of the Sea di Ron Howard. Un gustosissimo horror d'annata dimenticato, firmato da quel genio di Roger Corman, La piccola bottega degli orrori. Molto più divertente del previsto la caustica commedia calcistica Il maledetto United; esteticamente impeccabile The Danish Girl di Tom Hooper, che sconta un po' la prova irritante del protagonista Eddie Redmayne accompagnato però da una bravissima Alicia Vikander; un colpo perfettamente calibrato quello di Clint Eastwood con l'inquietante Changeling. Cinema scorsesiano al 100% quello di Jonas Carpignano e il suo affascinante A Ciambra. Buon western quello di The Missing di Ron Howard, così come il mitico (forse un po' lungo) Butch Cassidy di George Roy Hill. Riecco Bergman e il suo bellissimo e tremendo La fontana della vergine, poi un film poetico che spezza il cuore come Alabama Monroe e l'avvincente The Hurt Locker della Bigelow. L'immarcescibile humour surreale di Monty Python e il Sacro Graal, un ottimo Cassavetes con L'assassinio di un allibratore cinese, il geniale Mamet de Hollywood, Vermont e dell'heist movie Il colpo. Il monumentale e disorientante Avengers: Infinity War, una ennesima visione del fastoso Il gladiatore di Scott e grazie a Netflix il recupero dell'originalissimo, folle Yoga Hosers di Kevin Smith. Un Kaurismaki che non invecchia mai, Leningrad Cowboys go America, il raffinato Diario di un ladro (Pickpocket) di Bresson, Che-Guerrilla di Soderbergh (al quale ho preferito il primo capitolo, collocato più avanti tra i very good) e l'ultimo Payne, regista sempre interessante, con il simpatico e intelligente Downsizing. Bello ma sotto le mie aspettative A History of Violence di Cronenberg, quindi risate a crepapelle con Molto incinta (Knocked Up) di Apatow (che non è demenzialità allo stato zero, come si potrebbe pensare superficialmente anche a causa dei titoli italiani, veramente idioti) e il devastante La pianista di Haneke. Ancora Germi con un "western di fatto" che narra una storia di brigantaggio meridionale, Il brigante di Tacca del Lupo, e il Kechiche che ha dato scandalo con il bellissimo (sì, un po' ricercato) La vita di Adele. Un Woody Allen recente che piace a quasi tutti anche ai suoi detrattori, Basta che funzioni, ancora Kechiche con il giovanile interessante La schivata. Per la serie vecchie glorie, l'irresistibile Grosso  guaio a Chinatown di John Carpenter; l'originale Lei di Spike Jonze, il doloroso Magdalene di Mullan e l'inquietante, magnetico The Witch di Robert Eggers. Un tuffo nel musical d'autore con Un americano a Parigi di Minnelli, poi il sorprendente L'isola dei cani di Wes Anderson (sarò onesto, non ci avrei scommesso un centesimo), l'ottimo Marvel cinecomic Doctor Strange, il contorto e affascinante Mr. Nobody di Van Dormael, uno Spielberg forse un po' stucchevole ma di impatto emotivo come The Terminal. Per prepararmi degnamente al Chisciotte di Gilliam (il mio evento cinematografico dell'anno) ho visto il bel documentario Lost in La Mancha, quindi il suo esilarante e avventuroso I banditi del tempo. Un horroretto poco considerato che ho trovato invece molto divertente, Il corpo di Jennifer di Karyn Kusama, quindi ancora Gilliam con una ri-visione de La leggenda del Re Pescatore, visione bis (tris? quater? boh) anche per il buon vecchio Ocean's Eleven di Soderbergh, bella sorpresa il musical partenopeo dei Manetti Bros. Ammore e malavita e ottima impressione anche dal monster movie coreano The Host di Bong Joon Ho. Tosto Abel Ferrara con Il cattivo tenente, un Almodovar che inizia strepitosamente per poi accomodarsi ne Gli abbracci spezzati, un ottimo Virzì con Ella & John. Altro Bunuel d'epoca con I figli della violenza, il buon vecchio Silverado di Kasdan, quindi buon intrattenimento senza pretese con Now you see me - I maghi del crimine di Leterrier. Per concludere la carrellata dei "good"; una commedia indie molto simpatica come Selvaggi in fuga di Taika Waititi, l'intelligente e corrosivo Larry Flynt - Oltre lo scandalo di Forman e ancora Bong Joon Ho con il claustrofobico e adrenalinico Snowpiercer.


Qui di seguito gli ottimi film, quelli da 8 o 8 e mezzo.Si inizia col bellissimo Un racconto di Natale di Desplechin, quindi uno dei mattatori della stagione appena conclusa, Tre manifesti a Ebbing, Missouri di McDonagh, e un Billy Wilder in gran forma col brillante Quando la moglie è in vacanza. Tra i vari recuperi dei candidati all'Oscar 2018: particolarmente intenso lo storico bellico L'ora più buia di Wright, poi per il genere giornalismo d'inchiesta The Post del grande Spielberg e quindi l'esordio vincente della magnifica Greta Gerwig con Lady Bird. Un Demme tra i migliori con l'autoriale Rachel sta per sposarsi, l'esilarante Anchorman - La leggenda di Ron Burgundy di Adam McKay e uno straordinario Chaplin con La febbre dell'oro. Tante risate anche col vecchio Never Give a Sucker an Even Break di W.C. Fields, quindi il nostalgico Beatufil Girls di Ted Demme, il coinvolgente e "fotografico" Che - L'argentino di Soderbergh. Primo contatto con Koreeda, autore del magnifico Father and son, poi un tuffo nella nouvelle vague con l'indimenticabile Fino all'ultimo respiro di Godard. Una coppia di stupendi film di Germi, Il ferroviere  e soprattutto Divorzio all'italiana, quindi anche un po' di easy feeling con il sempreverde Love actually di Richard Curtis. Un Moretti affilato e maestoso quello di Habemus Papam; uno dei migliori thriller degli ultimi anni, il bianco e stupendo I segreti di Wind River. Commedia americana di qualità quella di Faxon e Rash C'era una volta in estate, quindi l'ultimo straordinario lavoro di Jason Reitman con una bravissima Charlize Theron in Tully. Humour british da accademia con la Ealing Comedy Sangue blu, fantasia straripante con Le avventure del Barone di Munchausen di Gilliam. Altra commedia inglese d'alta scuola con Un pesce di nome Wanda, quindi il classicissimo Gilda di Vidor e uno dei migliori film di guerra della storia del cinema, Patton, generale d'acciaio di Schaffner. Risate di classe con The Producers di Susan Stroman (che considero un ottimo remake del film di Mel Brooks), una perla del cinema classico come Il mistero del falco di Huston e un altro cult degli anni '70, il fascinoso e notturno I guerrieri della notte di Walter Hill. Concludo i very good con l'ultima fatica dei fratelli Coen, lo strepitoso western antologico La ballata di Buster Scruggs, cavallo vincente per Netflix.



Ed eccoci finalmente sulla vetta del mio anno cinematografico, le visioni che variano tra il 9 e il 10 assoluto. I film che reputo eccellenti e il cui ricordo accompagnerà e segnerà per sempre il mio es cinematografico. Inizio con uno dei più bei film di fantascienza di sempre, lo straordinario The Abyss di James Cameron. La fantascienza subacquea di Cameron ha tutti gli ingredienti giusti; una prima parte molto "tecnica", immersa nel clima della guerra fredda, con la squadra di sommozzatori alle prese col recupero di un relitto e l'interferenza di un navy seal andato fuori di testa (Michael Biehn). Spiccano le... prove di Ed Harris e di Mary Elizabeth Mastrantonio, attrice ormai piuttosto dimenticata ma che qui nei panni della progettista rompiballe è stata perfetta. La seconda parte, che è piaciuta meno alla critica, sublima con l'incredibile sequenza finale di emersione della gigantesca piattaforma aliena, un'effettistica che fatichi davvero a credere sia datata 1989. Anche la discesa a rotta di collo nell'abisso dell'eroe ordinario impersonato da Harris è una sequenza claustrofobica di straordinaria drammaticità. Uno dei tratti caratteristici del cinema di Cameron è il montaggio (lo stesso regista si dedica all'editing dei suoi film insieme a vari professionisti); riesce a darti sempre un effetto straniante, talvolta ti sembra di esser trascinato di sequenza in sequenza senza che la storia scorra sul filo logico più "immediato" e prevedibile, come se Cameron volesse spingere lo spettatore a seguire con maggiore attenzione la storia, non lasciandolo impigrire con i raccordi più scontati. 
Quindi una grande, enorme sorpresa con L'isola di Pavel Lungin. Con un tono che sa liberarsi dall’eccessiva austerità non disdegnando i risvolti comici, il film è tecnicamente ineccepibile ed ha una fotografia incantevole; i grigi e i blu, il bianco della neve e il nero del carbone sono raffigurati con eleganza pittorica nella fotografia dell’uzbeko Andrej Zhegalov, morto prematuramente subito dopo la fine delle riprese e  premiato postumo con il NIKA dall’Accademia russa. Anche il sonoro, un silenzio ovattato interrotto dallo scampanio e dallo sciaguattare del mare sul pontile di legno conferisce al film l’atmosfera ideale, arricchita dal salmodiare tossicchiante del protagonista e da brevi fraseggi al piano. Tra le varie sequenze degne di nota, va segnalata sicuramente quella dell’arrivo sull’isola della ragazza posseduta da uno spirito maligno, la bravissima Viktoriya Isakova, strepitosa nel dar corpo e voce a una creatura scossa da incontenibili risate, nella rappresentazione folkloristica del demonio buffonesco. La ragazza arriva accompagnata dal padre disperato, un triste ammiraglio che ha quel taglio orientale degli occhi, tipico di molte fisionomie slave, nel volto di Yuriy Kuznetsov: l’uomo chiuderà il cerchio della vita di Anatolj, il quale potrà finalmente riposare in pace dopo un grottesco siparietto con il fratello/rivale padre Iov su una bara un po’ troppo lucida per un’anima fuligginosa. Capolavoro che può rischiare di venir etichettato pregiudizialmente come “film religioso” (errore madornale), perla nascosta di quel cinema d'autore ahinoi mal distribuito e dimenticato. 
Un altro prodigioso tuffo nel passato con il classicissimo Questo pazzo, pazzo, pazzo, pazzo mondo di Stanley Kramer. La commedia americana anni ’60 è una vivace, chiassosa bomba di colore, irrompe nelle sale in Panavision e formati affini, è certo meno signorile delle sophisticated comedies in bianco e nero di soltanto qualche anno prima, ma non di meno è sorretta da sceneggiature di gran pregio. Questo rocambolesco road movie è scritto con formidabile estro dai coniugi William Rose e Tania Price Rose, un patchwork di infallibili meccanismi comici per un gran parterre di caratteristi, personaggi che come anelli concentrici seguono il loro singolare percorso confluendo verso l’unica meta. L’antefatto è presto riassunto: in una di quelle affascinanti, interminabili highways che serpeggiano nel deserto americano, un uomo esce di strada a tutta velocità con la sua cadillac; prima di spirare, rivela a un gruppo di automobilisti accorsi in suo aiuto l’esistenza di un tesoro nascosto a Santa Rosita in California. E’ l’inizio di una travolgente corsa all’oro senza esclusione di colpi, una epopea dell’americano medio dal ritmo serrato seppur con un minutaggio spropositato per i canoni del genere. Commedia molto “fisica”, una sorta di espansione dello slapstick con un sacco di acrobazie di massa (come nel roboante finale sulla scala pericolante), numerosi voli a infrangere vetrate o pareti di cartone, spettacolari inseguimenti in auto; è un stile che pesca molto anche dall’inesauribile patrimonio del cartoon americano, dalla Warner Bros. a Hanna & Barbera, attingendo al coloratissimo serbatoio della cultura popolare senza rinunciare però ad una sottile venatura più amara.
Altri quattro film spettacolari - dei quali, lo dico molto onestamente, non mi sentivo di scrivere granchè dopo la visione per cui non vado oltre le tre righe neanche qui - sono stati Come in uno specchio di Bergman, diventato subito il mio Bergman preferito per il modo in cui affronta il delicato tema della malattia mentale in famiglia; il bellissimo La sera della prima di John Cassavetes, con una sublime Gena Rowlands, altro tassello che va ad aggiungersi a un genere che amo moltissimo, i film che raccontano il teatro, davanti e dietro le quinte; il sorprendente The Square di Ruben Ostlund, film abrasivo fatto per restare nella memoria che come certa arte contemporanea ci arriva tramite piccoli grandi shock; il divertentissimo Hot Fuzz di Edgar Wright, folle zombie movie made in England con un irresistibile Simon Pegg, pieno di trovate semplicemente geniali.
L'ultimo Allen per me è un capolavoro completo. La ruota delle meraviglie è appunto una meraviglia a tutto tondo. Se ripenso alla prova della Winslet in questo film non posso che rimarcare un fatto già noto: la premiazione agli Academy è la fiera dell'ipocrisia, non candidarla agli Oscar è stata una follia. Certo ora chi lavora con Woody Allen è un ammorbato, perchè il gotha di quegli illuminati hanno il governo sulla Morale (fino al prossimo Weinstein, chiaro). ... E voi direte uh che palle la solfa sull'ipocrisia hollywoodiana; e avete ragione, la smetto. Ma badate bene di non lasciarvi fregare, non fate lo sbaglio di perdervi questo capolavoro di performance perchè ritenete Woody un vecchio bavoso, o perchè siete rimasti fermi ai bei tempi di Manhattan e Annie Hall. Questo film è stupendo perchè brilla di una prova definitiva, di quelle da togliere il fiato, di una attrice che sì, è sempre stata brava ma non aveva mai raggiunto questo livello. Ed è stupendo perchè l'estro cromatico di Vittorio Storaro qui compie una magia. A chi lo dava per morto o per spento o per sbiadito o per un regista che ha smarrito sè stesso, questa è una risposta da lasciare commossi. Sì, trovo la bravura del vecchietto Allen commovente e amo questo film. 
Altri due film dei quali poi per un motivo o per l'altro non ho scitto alcun appunto post visione; il sensazionale La cosa di Carpenter, da me visto per la prima volta (ma cosa mi perdevo), un crescendo di tensione in una atmosfera artica, rarefatta. Il meraviglioso La sposa turca di Fatih Akin, veramente una magistrale prova di regia per una storia dalla quale è difficile staccarsi.
E poi voilà, un film che mi ha folgorato all'istante, Spettacolo di varietà. Che dire di questo capolavoro di Vincente Minnelli se non che è diventato immediatamente il mio musical preferito. C'è davvero tutto quello che cerco in un film; l'attore sul viale del tramonto, le dinamiche del backstage, la musica, il colore, quel pizzico di imprevedibilità che insaporisce una sceneggiatura classica. Non saprei da cosa iniziare per dirvi ciò... che più mi è rimasto nel cuore, per cui vado così a getto. La gioiosa Nanette Fabray (mancata quest'anno) con il suo sorriso contagioso; il buffo personaggio interpretato da Jack Buchanan con la sua burbanzosa dizione scespiriana e la fissa per il Faust; la musica di Schwartz & Dietz in cui svetta l'immortale pezzo That's Entertainment. E poi certamente loro due e la loro meravigliosa alchimia: Fred Astaire e Cyd Charisse. Sicuramente la Charisse non è stata un'attrice di gran talento quanto a recitazione, ma quando inizia a danzare tutto il mondo si ferma a contemplare un simile spettacolo. In coppia con Sua Maestà la naturalezza fatta danza, il "vecchietto" Fred Astaire, sono brividi; tanto nelle sequenze più energiche come la fiammeggiante danza al Dem Bones Cafè quanto soprattutto nella straordinaria sequenza alla balera, una panchina e la città sullo sfondo (qualcuno ha detto La La Land?), due corpi fusi in uno, in una morbidezza del gesto che lascia sbalorditi e trasognati.
E poi vabbè, puro velluto rosso: Mulholland Drive di David Lynch. Che sia o meno il più grande film del nuovo millennio, come da più parti è stato definito, conta relativamente; meno inquietante di Strade Perdute, meno perverso di Velluto Blu, meno allucinato di Eraserhead, Mulholland Drive è semplicemente una perfetta calibratura di tutti questi ingredienti. Inquadrature sempre geniali, alcune di una bellezza che... vorrei dire commovente, sequenze che sono piccoli capolavori di amalgama tra noir e incubo. Con Naomi Watts a fianco e David Lynch dietro la macchina da presa, perfino una attrice mediocre come Laura Harring diventa Rita Hayworth. "No hay banda!" dice il mefistofelico presentatore al teatro Silencio; spettacolo color rosso velluto, trionfo del fasullo, del playback, un viaggo nel cuore di una Los Angeles funerea, mille lucine come lumi mortuari nel denso scuro della notte, con le musiche di Badalamenti che costruiscono un paesaggio sonoro di vibrante inquietudine.
Passiamo a quello che per quanto mi riguarda è stato di certo l'evento cinematografico in senso stretto dell'anno, inteso come proiezione di sala. Il magnifico L'uomo che uccise Don Chisciotte di Terry Gilliam. Evviva l'ostinata determinazione di questo regista, il suo amore incondizionato per il cinema fantastico popolato da maschere e pupazzi, cartone e gesso, stracci e cianfrusaglie.  Non poteva esserci combinazione migliore di quella tra il suo stile eclettico e i toni del romanzo picaresco del Cervantes, in cui visione e follia tirano le fila della storia. E non poteva esserci impersonificazione migliore del Cavaliere dalla Triste Figura di Jonathan Pryce, credetemi ve lo dice uno che ha versato lacrime amare (sì insomma, si fa per dire) sulla mancata occasione di vedere Jean Rochefort in quei laceri panni. Era il 2002 quando uscì Lost in La Mancha, quel gioiellino di documentario (che è pure un po’ mock, ma va bene uguale) in cui vedevamo il magnifico profilo adunco dell’attore francese indossare il mitico bacile e impugnare la lancia di legno in sella a Ronzinante. Fu una chimera, una serie incredibile di iettature affossò quel progetto lasciando nel cassetto delle incompiute pure un Sancho Panza con la fisionomia zingaresca di Johnny Depp. Chissà come sarebbe stato quel film, viene da chiedersi: chissà se avrebbe raggiunto le altissime vette di questa sgargiante fenice che è la nuova opera di Gilliam. Per parlare di un film del genere non si può non partire dalla prova magistrale di Pryce, attore che deve molta della sua fortuna proprio all’eccentrico regista. L’outfit visivamente ineccepibile, dovuto all’ottimo lavoro ai costumi di Lena Mossum (che ha probabilmente lavorato sulla traccia di Gabriella Pescucci e Carlo Poggioli, coinvolti nel progetto originario), non sovrasta una interpretazione in cui pazzia e poesia, dolcezza e incandescenza, fierezza e fragilità danzano a braccetto con perfetta grazia. Ma è anche la geniale sceneggiatura, scritta dal regista insieme al collaboratore Tony Grisoni, a gettare un fascio di luce su questo straordinario attore, mettendolo in condizione di concorrere all’Oscar (impossibile non considerarlo in corsa), col disegno di un personaggio di cui ci si innamora subito, un timido calzolaio spagnolo che entra in totale simbiosi col personaggio al punto da finirne pervaso. Il falso Quijote di Pryce si imbeve del personaggio e la sua psiche diventa errabonda e instabile come la creatura di Cervantes, percorrendo un mondo di scenari medieval-suburbani contaminati dagli scarti della modernità in una sublime composizione di epoche. Anche la scenografia di Benjamín Fernández ha per quanto mi riguarda un lasciapassare dorato per gli Academy Awards, trovando il suo picco artistico nelle sequenze finali al castello (il monumentale Convento do Cristo a Tomar, in Portogallo). Non aveva certo bisogno di ulteriore consacrazione nemmeno il bravissimo e affermato Adam Driver, che molti ahimè conoscono soltanto perchè mena la spada-laser rossa mentre si tratta di uno dei migliori attori in circolazione, perfettamente a suo agio nella commedia, nel dramma e nella commistione tra essi. Il suo è il personaggio chiave della storia; un regista in crisi (chiamato Toby Grisoni, quasi omonimo dello sceneggiatore e amico di Gilliam) ritorna nei luoghi dove girò il suo esordio autoriale in bianco e nero, ritrovando i protagonisti di quella produzione low-budget tra i quali appunto l’improvvisato Don Chisciotte che quei panni non li ha mai dimessi. Attraverso le sue rocambolesche disavventure il nuovo Sancho intraprenderà un viaggio che sconfina senza posa tra il razionale e l’assurdo, lasciando lo spettatore senza riferimenti certi per tutta la durata del film. Driver muove il suo personaggio con duttilità, sapendo trovare le reazioni giuste per scatenare ilarità e al contempo tenere vivo il sospetto di una discesa verso gli inferi della instabilità psichica. Forse l’epilogo che si accoda all’inevitabile morte del cavaliere della Mancia (non c’è spoiler, Chisciotte muore nel romanzo del ‘600 così come in un film che non ne fa mistero fin dal titolo) si smarrisce in una simbologia un po’ scontata, è come se il film arrivasse un po’ esausto ai titoli di coda dopo il climax felliniano (molto, molto felliniano) al castello. Un altro punto debole del film è il casting femminile, con due protagoniste poco incisive (Olga Kurylenko e Joana Ribeiro), ma al di là di queste trascurabili annotazioni il Don Chisciotte di Gilliam brilla come un astro nella notte per il cinema più coraggioso, personale, quello del cuore oltre l’ostacolo. Una resurrezione per lo spirito donchisciottesco che grazie al cielo sembra destinato a non morire mai; un film divertente, grottesco, con la giusta dose di imprevedibilità tipica dei sogni e una spolverata di cattiveria, con sottotesto politico contemporaneo tutt’altro che relativo (molto interessante la rappresentazione della fobia terroristica) che vi consiglio caldamente di non lasciarvi sfuggire.

E poi - lo stacco un po' dal resto per la trascendenza totale dell'esperienza - ho visto Stalker di Tarkovskij restaurato al Trieste Science+Fiction Festival. Vedere Stalker restaurato in sala è una esperienza che non trova parole per essere descritta degnamente. Il sapiente uso della luce e del colore, della disposizione degli oggetti, dei movimenti di macchina sono mistica cinematografica allo stato puro. Non trovo parola migliore di: grazie.

Triste solitario y final, il capolavoro Netflix per eccellenza: Roma di Cuaron. Che film meraviglioso. E' questo il titolo che forse vince la palma del miglior film dell'anno. Un bianco e nero e un linguaggio cinematografico che sembrano provenire da un'altra epoca, delicato e nostalgico. Tutto è condito dal profondo realismo delle interpretazioni che sembrano catturate in presa diretta, per dare una impressione completa di "casa". Sì questo di Cuaron è un omaggio alla casa con i suoi sapori e i suoi dissapori, i ricordi d'infanzia, il profumo del pulito e il chiasso della strada, la durezza dei rapporti, l'amore, la famiglia. Una naturalezza che lascia profondamente ammirati e felicemente consapevoli che il grande cinema è vivo più che mai, che "il più grande film di tutti i tempi" potrebbe ancora non esser stato scritto.