mercoledì 23 settembre 2015

Inferno, Canto XXII. L'astuto navarrese


Dante riprende in avvio il grottesco finale del Canto XXI, ricordando la sì diversa cennamella con cui Barbariccia aveva chiamato a raccolta la fiera compagnia dei dieci demoni, per poi farci reimmergere nel nero bollore della Malabolgia dove stanno attuffati i barattieri.  
Questi guizzano furtivamente di tanto in tanto mostrando la schiena come i delfini, nascondendosi prontamente per evitare gli arpioni dei loro aguzzini. Con una immagine parallela, Dante li paragona anche ai ranocchi che stanno col muso a pelo dell’acqua; ma come s’appressava Barbariccia, si ritraén sotto li bollori.
Uno di questi viene afferrato da Graffiacane, il quale li arruncigliò le impegolate chiome e Dante, vedendo la malaparata del dannato minacciato di scuoiamento da Rubicante, sembra quasi cercare un diversivo chiedendo a Virgilio di interrogare il poveretto. Torna la pietas dantesca, quel barlume di umanità che di tanto in tanto illumina gli angoli più bui dell’inferno.
Il barattiere si presenta come uno spagnolo, suddito del regno di Navarra. La tensione drammatica della scena continua, altri diavoli si fanno sotto a minacciare le peggiori torture; il capo Barbariccia si fa largo e intima ai due viaggiatori di completare le loro domande, per poter quindi infilzare il navarrese.
Virgilio indaga sulla eventuale presenza di altri latini sotto la pece, e quello risponde che si è appena separato proprio da un che fu di là vicino, compiangendosi del fatto di non esser rimasto là sotto con lui risparmiandosi così la punizione dei Malebranche.
Libicocco e Draghignazzo, incapaci a trattenersi, si gettano furiosi sull’uomo ma dopo averlo ferito al braccio si fermano davanti al truce sguardo (mal piglio) del loro decurio Barbariccia.
Virgilio si inserisce ancora chiedendo l’identità del dannato italico a cui accennava il navarrese, ottenendo il nome di Frate Gomita (vicario del Giudicato di Gallura in Sardegna), vasel d’ogne froda e barattiere “sovrano”, a cui aggiunge quello del compaesano - ora compagno di pegola - Michele Zanche.
Tocca al digrignante Farfarello farsi sotto minaccioso con gli occhi stralunati, interrompendo nuovamente il resoconto dello spagnolo; ancora una volta Barbariccia tira il guinzaglio a uno sgherro della sua masnada.
A questo punto lo spaurato navarrese gioca la sua ultima carta. Vi condurrò qui toschi e lombardi, afferma, a patto che questi diavoli se ne stiano tranquilli a cuccia. Cagnazzo e Alichino annusano subito l’inganno, tuttavia quest’ultimo dichiara tronfio di essere comunque in grado di riacciuffarlo. Un attimo di distrazione e… pluff! L’uomo si divincola dalla presa di Barbariccia e si inabissa prontamente nella pece; a nulla vale il tentativo di Alichino di gettarsi a capofitto sulla preda, come un falcone sull’anatra. Calcabrina (alla fine Dante ha rinominato tutti i Malebranche, uno per uno, quasi per celebrare gongolante la sua fantasia onomastica) infuriato s’azzuffa con il compagno, col risultato che i due s’impiastricciano le ali e vengono mestamente recuperati dagli altri grazie ai lunghi uncini. Una scintilla di comicità, tanto per dire che pure nella dannazione eterna qualche umano stratagemma riesce ancora a sfangarla.

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