Federico Fellini

Federico Fellini
Rimini, 1920 - Roma, 1993

FILMOGRAFIA SCELTA:

I vitelloni, 1953
Il soggetto, firmato dallo stesso regista insieme a Pinelli e Flaiano, racconta le vicende di un quintetto di scanzonati lucignoli nel riminese; una sorta di commedia dal retrogusto amarognolo, Leone d'Argento a Venezia, per la quale il critico Lanocita definì sagacemente Fellini l' "umorista malinconico".
Si inaugura qui la galleria di personaggi e ambienti che costituiranno l'immaginario felliniano: dalle spiagge desolate alle feste paesane, così carnascialescamente tristi, gli angeli e gli arredi liturgici, le periferie spazzate dal vento. Memorabile Alberto Sordi, specialmente in una scena in cui indossa i panni di un clown grottesco, col suo faccione tondo da Pierrot borgataro.

La strada, 1954
Il circo itinerante, i carrozzoni e i mestieranti di strada, la periferia e le baracche popolate da donne fazzolettate e bambini ipercinetici, le severissime ed ultrabarocche processioni paesane, i fuochi notturni sul ciglio della strada; l'immaginario felliniano esonda ed affascina, in un film magico e realista allo stesso tempo, dove su tutti spicca la figura del rude Zampanò, interpretato da un superbo Anthony Quinn. Tenera e allocchita Giuletta Masina, faccia e movenze da mimo, in una storia impreziosita dai commenti musicali di Nino Rota. 

Le notti di Cabiria, 1957
Maria Ceccarelli, conosciuta come Cabiria, è una prostituta che vive nelle borgate di Roma; donna tenace, linguacciuta e dotata di un grande senso di dignità, eppure fragile e segretamente romantica, ci racconta i volti della Roma anni '50, tra via Veneto coi suoi vip e i suoi esotici night-club, e le squallide periferie dove gli ultimi vivono sotto terra, nelle umide grotte.
Stupendo carosello notturno, con il superdivo Amedeo Nazzari a rappresentare l'accidiosa inquietudine di chi vive nel lusso, accompagnato alla raffinata e sensuale Dorian Gray emblema degli sbalzi d'umore derivanti dalla cronica depressione. La piccola e tosta Cabiria si intrufola per una notte nella loro reciproca distruzione, e dal buco della serratura assiste alla proiezione di un film drammatico sentimentale; come set, le mura domestiche. Ne uscirà di soppiatto, perdendosi tra notte ed alba nella brulla periferia, la terra che nasconde come una povera madre i suoi figli in grembo; e alla fine, tra le illusioni da varietà, sarà proprio questo popolo di prostitute, magnaccia e suonatori di mambo ad emergere nella vita di Cabiria come l'unica flebile luce in un mondo di tenebra e inganni. Un atto d'accusa che Fellini non risparmia nemmeno all'italica devozione mariana, cogliendo la tragicomicità della deriva superstiziosa di certi pellegrinaggi.
Immortale particina per Aldo Silvani, l'ipnotizzatore; dolce e materna, ma senza eccessi, la giunonica Franca Marzi nel ruolo dell'amica Wanda. 

La dolce vita, 1960
Un filmone lungo, pesante e per certi versi difficile, non fosse altro che per la ricerca compulsiva di simboli. Detta così, vi suonerà come un'asserzione fatta per affossare un'opera; ma in questo modo di fatto tolgo l'unico sassolino nella scarpa, tiro i miei pugni sul muro di quel greve monocorde simbolismo felliniano, quella persistenza artistica che lo porta a frequentare fino all'usura certi luoghi dell'immaginario. Il cinema di Fellini porta lo spettatore all'amore rabbioso, morboso e disperato di Emma per Marcello. Non può (non deve?) esserci del facile feeling.
C'è la Roma borgatara e la Roma snob, c'è la prostituta e la signora annoiata, c'è la superstizione miracolistica popolana e l'esoterismo vip, c'è l'Eva fragile, isterica, elegante e felina e l'Adamo dandy, gonnaiolo, accidioso e sopraffattore. C'è una dicotomia assillante, sì, e c'è pure una esibizione continua di gesti d'arte gratuita e orgogliosamente fine a sè stessa, vezzi e sbaffi dell'élite mondana, come l'immersione sacralizzata della prosperosa Eckberg nella Fontana di Trevi, i balli sfrenati, le orchestrine e i ballerini rigorosamente esotici. Fellini, un po' come Welles, si impossessa della camera e ci pigia dentro tutto, con grandeur consapevolissimamente kitsch, in un crescendo erotico e visionario, verso un finale che spezza i fili logici, arrabbiato, ancestrale, molle come un mostro marino arenato sulla spiaggia.

, 1963
Quando hai finito la visione di questo film ti ritrovi a frugare nella valigia dei tuoi migliori aggettivi, ma non trovi nulla di adatto. Trovi ogni parola datata, usata, scialba. Ti accorgi finalmente di come la critica non sia onnipotente e onnicomprensiva; ti rendi conto della nebbia mistica, quel confine che separa ciò che sta da una parte e ciò che sta dall'altra dello schermo, e di quanto sia illusorio pensare di poter setacciare ogni cosa dell'arte, perchè alcune cose sfuggono ai tuoi poveri mezzi. E' come provare a prendere un'anguilla con le mani bagnate, scivola via guizzante e più viva che mai. Fellini mette in connessione sogno, ricordo e visione, ha quella intuizione vitale, accende quella sacra fiamma a cui guardiamo ipnotizzati in trance. Ci nutre di bellezza eterna il solo catalogo della sua straripante, variegata, originale umanità, che affastella primi piani di visi strani, grotteschi, popolari, circensi. La sola istanza demitizzante arriva forse dall'impianto dialogico, così tremendamente nouvelle vague, babelicamente snob, un lavoro di ordito del fido Flaiano e la sua penna spudorata (ma se questo è il limite, signori miei, di cosa vogliamo parlare noi tastieristi da pausa caffè...) Io gli metto un nove, con irriverenza e senso di colpa; mi resterà come una lorda macchia addosso, segno indelebile della mia ignoranza, ma servirà a costringermi ad una seconda visione.
Visto il mio intontimento post visione, posso solo pensare a ricollezionare le sequenze marchiate nella mia mente; l'abbacinante visione collettiva alle fonti dell'acqua santa, le schermaglie di carnalità tra Mastroianni e la Milo, il ballo sulla spiaggia della selvaggia gigantesca Saraghina, il sogno androcentrico del protagonista servito dalle donne della sua vita, il finale con la consueta atmosfera da luna park di periferia, tra desolazione e luci del varietà. 


Amarcord, 1973
Sono uscito dal cinema con la pelle d'oca. Emozioni a fior di pelle, seduzione totale; sarà anche un richiamo atavico del mio sangue in parte emiliano (sì lo so che romagnolo è altra cosa, ma ciò che è ancestrale non guarda al campanile), sta di fatto che questo è il mio Fellini preferito.
Vi spiego perchè: in primo luogo, la gioia di averlo visto in una sala cinematografica grazie al restauro della Cineteca di Bologna (lunga vita!). Poi, il trionfo del colore, che è perfettamente connaturato alla vitalità della pellicola, catturato dalla fantasmagorica fotografia di Rotunno, oggi signore di 92 anni che ha pregiato della sua supervisione le operazioni di restauro.
La vis comica di questo film, con la sua galleria di caratteristi irresistibili; penso alla sequenza degli insegnanti, pura essenza del miglior cabaret all'italiana. Il gusto dei sensi, dalla tavola al letto, che Fellini ha sempre celebrato liberamente; Roger Ebert, tra i primi ammiratori di Fellini, per strappargli di dosso la fastidiosa etichetta di "cinema d'autore" affermò provocatoriamente che il maestro riminese era più vicino a Russ Meyer che a Ingmar Bergman.
La musica di Nino Rota. Sì, la musica più che "le musiche", perchè in questo film viene riproposta all'infinito la celeberrima nenia ipnotizzante, orientaleggiante, malinconica, in tutte le salse e in diverse varianti. E non vorresti ascoltare altro.
L'atmosfera paesana ricreata magicamente, in un gioco di parodia e di fantasia, con gli accenti sui grandi falò equinoziali, le contrade di paese dove un avvocato cicerone (bellissimo volto di Luigi Rossi) prova a raccontarci una storia ma viene continuamente spernacchiato da qualcuno (Fellini stesso). La poesia di una processione di lampare in mare aperto per salutare il transatlantico, gigantesco e luminoso come un mostro marino che emerge dal buio notturno. O di un casolare nei campi tra il frinire delle cicale dove un matto sull'albero grida "Voio una doooonnaa!" (eccezionale Ciccio Ingrassia, disconosciuto grande artista del nostro cinema), una nebbia avvolgente come la morte, la neve che chiama improvvisamente tutti fuori dal cinema dove si stava proiettando un film con Gary Cooper. Un film segnato dalle stagioni, con la medesima semplicità della vita di borgo. Si ride e si piange, si ama e si muore.
Aggiungo in coda pure che Woody Allen trasse ispirazione da questo film per il suo 'Radio Days', che a tutt'oggi resiste saldamente sulla vetta dei miei film preferiti in assoluto. Sì lo so sono un nostalgico... Che ci posso far? 

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