John Cassavetes

John Cassavetes
New York, 1929 - Los Angeles (CA), 1989

FILMOGRAFIA SCELTA:

Ombre (Shadows), 1959

Decisamente ammaliante, il cinema diretto di Cassavetes. Dissolvenze secche, narrazione frammentata illustrano un segmento di vite a New York, "estratto" senza inizio nè fine precisi, sullo sfondo (accennato) delle questioni interrazziali. Fraseggi di sax o un intenso pizzicato di basso commentano, introducono e si sovrappongono a dialoghi polifonici, dove si nota la gran naturalezza degli attori con la loro bella gamma di espressioni facciali e mimiche di taglio realistico, un filone d'ispirazione per gente del calibro di Robert Altman e Woody Allen.
Davvero notevole l'espressività della semi sconosciuta Lelia Goldoni con i suoi occhioni da gatta; a me è piaciuto un sacco Tom Reese, plastico e gigante pur in un ruolo di secondo piano.

Volti (Faces), 1968

Qui forse Cassavetes non raggiunge quel grado di "intimità" con lo spettatore che aveva dato con Ombre, suo film d'esordio. C'è quel realismo visivo, quella pazzesca aderenza delle immagini alla realtà dove l'inquadratura sembra assumere con naturalezza la capacità visuale degli occhi. Con Cassavetes alla seggiola di regista, il posto d'onore per la Recitazione è garantito, gli attori sembrano lanciati a briglia sciolta; stupendo il quartetto base formato dai coniugi (un magnifico istrionico John Marley dal volto pietroso, ottima Lynn Carlin e le sue crisi isteriche di risa e pianto) e dai rispettivi amanti (la languida Gena Rowlands e il tontolone viveur Seymour Cassel). In questa pellicola viene spinta a mille la capacità di risata degli attori; è un esperimento davvero interessante, perchè a fronte di una reiterazione non indifferente degli scoppi di risa si può vedere quanto "tiene" in termini di efficacia una interpretazione. Sotto questo aspetto, la palma della veridicità spetta indubbiamente a John Marley.
Manca invece secondo me una sceneggiatura adeguata; i dialoghi sembrano tirati su "per far muovere la bocca" agli attori. Cioè, il contenuto dei dialoghi risulta del tutto secondario, l'effetto è un po' quello di assistere a magnifici provini dove non conta quello che dici ma come lo dici.
Un aspetto interessante di questo film è che il gioco dei sensi tra i protagonisti viene crudelmente frustrato; ogni aspetto erotico viene puntualmente raffreddato dal regista. Quando infatti aspettiamo, eccitati come i protagonisti, l'uscita dallo spogliatoio della prostituta Rowlands (che è entrata a mettersi sibillinamente "qualcosa di comodo") ci ritroveremo "delusi" nel vederla uscire in ordinari pantaloni e camicia. Quando chiederà all'amante di fare un bagno insieme questi rifiuterà opponendo ragioni ridicole. O ancora: quando i coniugi sono a letto l'approccio sessuale viene stroncato dalle risate su banali barzellette, quando gli amanti sembrano trovare il giusto feeling irrompe la depressione.

Mari
ti (Husbands), 1971

Con Cassavetes tutto appare reale, ma tutto è ricodificato. C’è la “sensazione del reale”, tutto risuona di primo acchito come un filmino amatoriale dove prevalgono i primi piani e i dialoghi sembrano srotolarsi lì, sul momento, senza finzione scenica. Ma c’è al contempo una esasperazione, un parossismo di questa realtà, quello che Roger Ebert definì pseudo-cinéma-verité (il mio critico preferito, con il quale difficilmente mi sono trovato in disaccordo; qui io sono più generoso di lui nella valutazione, ad esempio). Il trio di protagonisti è d’altissimo livello – e qui non nego la mia personale predilezione per Peter Falk – ed oltre a questo c’è sempre qualcosa di incantevole in questo cinema; un esempio, la sbronza collettiva con gara di canto al pub dopo il funerale (tutto ciò ricorda un po’ l’Ulisse di Joyce).
L’aria risulta un po’ appesantita dalla visione virocentrica di quegli anni, con un episodio di piccola violenza famigliare che rende davvero fastidioso il personaggio di Ben Gazzara.

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