lunedì 16 ottobre 2017

Review: Ninfee nere

Ninfee nere Ninfee nere by Michel Bussi
My rating: 4 of 5 stars

Un giallo d'ambientazione impressionista davvero geniale, con un epilogo per niente scontato, di quelli retrospettivi per cui appena chiuso il libro ti trovi a "rileggerlo" mentalmente, apprezzando la fine intuizione costruttiva dell'autore nei vari passaggi. La storia ruota attorno alla pittoresca Giverny, luogo delle famose ninfee di Monet, e chiaramente tutto si ammanta della poetica di quei colori e di quei pennelli immortali; c'è al centro un omicidio, una comunità con i suoi scheletri nell'armadio e alcuni intrecci pericolosi dove ancora una volta Thanatos viene risvegliato da Eros. Preparatevi alla sorpresa delle ultime pagine - io come molti altri lettori sono rimasto piacevolmente colpito - e godetevi uno stile sobrio e liscio come l'olio, adeguatamente tradotto in questa bellissima edizione (adoro le copertine della e/o).

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venerdì 6 ottobre 2017

1997 Fuga da New York di John Carpenter



Diario di visione del blu-ray, una edizione piuttosto spartana Universal/StudioCanal ma di ottima qualità delle immagini, parecchio tempo dopo l’ultima visione in TV (almeno dieci anni fa, forse di più).

Sin dal primo clic su “inizia film”, parte l’amalgama perfetto. I titoli di testa minimal esaltano la strepitosa colonna sonora scritta dallo stesso Carpenter in collaborazione con Alan Howarth, veterano del sound design e degli effetti sonori. Un refrain cupo e malinconico al synth che ha fatto storia.
Le prime scene tra il sonoro degli elicotteri, i fari nella notte, le mura bluastre e i poliziotti dall’assetto futuristico preparano lo spettatore all’atmosfera distopica del film (alcuni fondali disegnati dal giovane James – Jim nei credits - Cameron); arriva la prima apparizione di KURT RUSSELL, figura illuminata con toni quasi incandescenti che staglia nell’oscurità attorno, scende dal bus blindato sotto scorta con un’aria da ceffo, barba incolta e capello lungo, benda da pirata, andatura da cow-boy e mise perfetta per un antieroe del noir fantascientifico (costumi di Stephen Loomis… un cognome che dirà qualcosa a chi conosce la filmografia di Carpenter). L’antagonista iniziale è l’immenso LEE VAN CLEEF, nasone a becco d’aquila e orecchino da pirata, commissario di quelli tosti.
Il cuore sussulta quando avviene il fatto che scatena il plot. Un aereo (l’Air Force presidenziale) si schianta sullo skyline di New York; come non pensare all’11 settembre? La missione recupero di Snake Plissken viene assegnata, il suo gullfire planerà silenzioso sopra il tetto delle Twin Towers per un secondo sussulto emotivo. E siamo decisamente, pienamente, angosciosamente dentro al film.
Che atmosfera la New York distopica trasformata in un gigantesco carcere a cielo aperto. Sin dall’arrivo in un grattacielo desolato, con ombre che fuggono sullo sfondo – sottolineate con rapidi commenti sonori – per poi scendere nelle buie strade interrotte qua e là da pire incandescenti, Plissken, fucile alla mano, sgattaiola nei meandri di una devastazione reale (molte scene furono girate a St. Louis dopo che un incendio aveva devastato un intero quartiere) che farà poi da modello a Blade Runner l’anno successivo.
La grandiosa intuizione cyberpunk di fondere le maschere del vaudeville agli scenari post-apocalittici trova la massima espressione nella scena dello spettacolino al Fox Theatre (anche in questo caso si tratta di quello di St. Louis), dove incrociamo il mitico ERNEST BORGNINE nei panni di un tanto improbabile quanto romantico tassista in un mondo desolato e violento. Anche il lunatico Duca di New York, villain dal costume fumettistico, interpretato dall’icona soul ISAAC HAYES rientra potentemente in questo immaginario, accompagnato dalla maschera grottesca (potrebbe figurare benissimo tra i replicanti di Ridley Scott) del folle Romero, l’attore Frank Doubleday.
Last but not least, la grandiosa parabola politica di Carpenter in piena guerra fredda e in un’America appena uscita dallo scandalo Nixon. Una visione “sinistra” e “di sinistra”, certo, ma se qualcuno oggi potrebbe sbeffeggiare la “profezia mancata” di una involuzione così cinica di Manhattan (e dell’America in generale) qualcun altro potrebbe sensatamente considerare che anche se non sempre ci sono rottami fumanti a dividere i quartieri, la ghettizzazione esiste e si può proporre perfino su larga scala (il muro tra USA e Messico, per dirne una). Così come la minaccia nucleare. Noi ci consoliamo con Snake (Iena) Plissken e la sua piccola vendetta, il nastro di una cassetta che si srotola nella scena finale mentre un presidente inebetito ascolta le note di un boogie, inaspettata “soluzione di tutti i conflitti”.

martedì 26 settembre 2017

Review: La ferrovia sotterranea

La ferrovia sotterranea La ferrovia sotterranea by Colson Whitehead
My rating: 5 of 5 stars

Sentinella a che punto è la notte?

Che lettura, signori e signore mie! Era da tempo che un romanzo non riusciva ad acchiapparmi così, da stare incollato febbrilmente alle sue pagine. Era dai tempi della mia lettura de L'impero del sole di Ballard che non mi immedesimavo in tal modo nel protagonista della storia, provando le sue stesse angosce e speranze; tanto di cappello all'autore, visto che qui parliamo di una donna (non mi era mai accaduto prima nella mia vita di lettore!). E consentitemi: che donna! La schiava Cora è un personaggio magnifico, non si piega alla brutalità, mai, eppure non si tratta mica di una vendicatrice alla Beatrix Kiddo, macchè. La sua determinazione, la capacità di risollevarsi ogni volta, la sua progressiva consapevolezza di cosa è e cosa non è la libertà sono tutti tratti umani cesellati di fino, denotano una attenzione particolare nell'autore, Whitehead, affinchè non esca fuori un'eroina poco credibile in grado di saziare subito la sete di giustizia dei più, che poi si tiene sempre dentro al cerchio perfetto dell'etica. Ecco, questa è la benedizione del sentir narrare questa storia da un afroamericano qual è Colson Whitehead: non c'è quel fastidioso, a volte infido, moralismo bianco. Anzi, il ritratto più complesso viene fornito non ai turpi schiavisti e negrieri, bensì agli abolizionisti i cui buoni intenti spesso coincidono con idee distorte sulla razza. Il parossismo di ciò viene espresso nel magnifico capitolo dedicato alla Carolina del Sud, uno di quei posticini accoglienti dove tutti sorridono e dove si cela il più agghiacciante dei progetti. C'è avventura e sgomento, ci si sente braccati inesorabilmente come Cora, si legge con il cuore in gola. Cosa di può chiedere di più a un romanzo?

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lunedì 4 settembre 2017

Review: The Hairy Ape

The Hairy Ape The Hairy Ape by Eugene O'Neill
My rating: 4 of 5 stars

Non sono mai riuscito a placare la mia sete di teatro e me ne rammarico non poco. Andare a teatro è anche una esperienza fisica, quindi assolutamente non paragonabile all'andare al cinema (che è facilmente sostituibile con le visioni home video); nessuna scappatoia ci viene dal teatro filmato il quale oltre a non avere logicamente una produzione sufficiente manca totalmente di sensorialità, altera completamente l'acustica diretta, sa irrimediabilmente di finto (fatta eccezione per le standup comedy, da sempre molto più televisive). Orbene, se lo spettatore non va al teatro, sia quantomeno il teatro ad andare verso il lettore: vorrei cominciare a leggere il teatro partendo da Eugene O'Neill, uno dei più illustri drammaturghi americani.
Tutto il teatro americano moderno mi incuriosisce particolarmente in quanto esso è stato una delle fonti primarie a cui hanno attinto gli sceneggiatori della mia Hollywood preferita, quella della golden age tra gli anni '30 e '40. Da qualcuno bisogna pur iniziare e O'Neill mi è sembrato il nome più logico. Nella sua pagina Gutenberg si trovano quattro plays (quanto mi piace la parola inglese; anche il francese pièce non mi dispiace, mentre l'italiano "opera teatrale" mi suona piuttosto ordinario) più un atto unico incorporato in una antologia. Ho deciso di iniziare la mia "lettura teatrale" da The Hairy Ape (in italiano conosciuto come La Scimmia Villana), scritto nel 1922. Già dal primo impatto si capisce che molta parte del testo è scritta in uno slang gustosissimo (ma direi abbastanza intuitivo per chi ha inglese upper intermediate), tutto da leggere a voce alta.
Sì, la lettura di una play teatrale deve per forza avvenire a voce alta. E' la minima concessione che si possa fare a un testo che non ha senso di esistere se non viene declamato. L'immaginazione può essere un discreto teatro alternativo, facendo partire il classico gioco mentale del dare un volto ai protagonisti senza alcun criterio temporale; così io ho potuto immaginare Yank con le fattezze di Tom Hardy, Paddy con il faccione di Anthony Hopkins, Long con il viso affilato di John Carradine, una diafana Mildred con il volto di una giovane Shelley Duvall. Ah, la zia brontolona aveva la faccia di Elsa Lanchester, la tata transfuga in Mary Poppins!
La scena si apre nella sala macchine di una nave, dove i fuochisti si stanno prendendo una pausa dal nutrire la rossa focosa fornace (fiery furnace). Hanno già messo mano alle birre e dato fiato alle canzoni marinaresche quando il grosso energumeno che tutti conoscono come Yank blocca la cagnara perchè lui deve pensare. E per farlo, ci spiega in più occasioni O'Neill, deve prendere proprio la posizione della celebre statua di Rodin. Il protagonista ci viene subito presentato come un pezzo d'uomo, la faccia sempre sporca di carbone, irascibile e totalmente privo di istruzione e buone maniere. Il suo parlare è colorito, zeppo di intercalari e di epiteti che affibbia ai suoi compari (lousy boob, yellow, old harp, bum...); parallelamente, l'anemica Mildred accompagnata da una cinica zia ci viene presentata come una ventenne snella, delicata, dal bel faccino pallido che malcela una sprezzante superiorità (disdainful superiority, espressione perfetta!). Mildred è la figlia di un ricco magnate dell'acciaio e sta compiendo una specie di praticantato sociale andando a curiosare tra gli emarginati, per conoscere le loro condizioni di vita - o più semplicemente per provare, come acutamente osserva l'acida ma perspicace zia, dei fremiti morbosi (morbid thrills). Fattasi accompagnare da un gruppo di ingegneri, la giovane entra in sala macchine proprio mentre Yank sciorina il meglio della sua scurrilità; sul filo del mancamento, la giovane fugge lasciando il suo bel commentino, un giudizio pesante come una pietra: Oh, the filthy beast! che giunge al povero Yank come un pugno allo stomaco.
Interessante come in realtà non sia originariamente hairy ape (scimmione capelluto) l'epiteto che diventerà poi il casus belli di una rappresentazione della lotta di classe; infatti l'espressione eponima sarà coniata dall'anziano compagno fuochista Paddy, il quale commentando l'accaduto dirà al furibondo Yank che la ragazza "era come se avesse visto una grossa scimmia capelluta fuggita dallo zoo". Come il mantice sul fuoco, anche i commenti e le battute salaci degli altri alimentano la rabbia il quale giura vendetta per l'affronto subito. C'è poi chi come l'altro collega Long vorrebbe dare la giusta dimensione alla causa, che non è affatto una questione privata ma una questione politica e di classe, giacchè Mildred altri non è se non una rappresentante di quei porci capitalisti (them lazy, bloated swine). Yank, solo con il suo furore e senza mai poter incontrare la diretta responsabile girerà a vuoto in questa sua chimera fino alla sua grottesca fine; qualcuno lo canzonò dicendo che in realtà si trattava di amore a prima vista, ma lui ebbe a precisare: "Love, hell! Hate, dat's what. I've fallen in hate, get me?"

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Review: Acqua nera

Acqua nera Acqua nera by Joyce Carol Oates
My rating: 4 of 5 stars

Forse sono un lettore criptomaschilista e ne dovrei fare ammenda, di quelli che inconsciamente leggono quasi sempre autori uomini; tuttavia quando mi capita di intercettare una autrice che mi piace, so che ella metterà piacevolmente a soqquadro il mio consumato fiuto libresco. Accadde con la magnifica e delicata prosa di Natalia Ginzburg, è accaduto ora anche con Joyce Carol Oates, prolifica autrice americana da me sempre sciaguratamente trascurata: un feeling che non si limita al piacere della lettura in questione ma cerca il suo spazio del mio animo letterario, ribaltando le carte sul tavolo. Questo romanzo breve è affilato come un rasoio, folgorante e geniale.
La morte è da tempi immemori un ingrediente essenziale del romanzo, il morire è relegato a sparsi climax narrativi; ben poco ci arriva dalle testimonianze del reale, sono momenti di cui non è evidentemente possibile una narrazione lucida. Là dove il vero annaspa, arriva la finzione; la Oates ha sublimato questa intensa sensazione nel racconto della giovane Kelly, una sorta di flusso di coscienza che rappresenta con efficacia il famoso disordinato film della tua vita che ti passerebbe davanti a pochi istanti dall' ultimo respiro. Kelly Kelleher è una ragazza in gamba, attivista dem, e il destino le ha fatto incontrare il Senatore a un party. Lui è il classico esempio di uomo intelligente e sportivo di mezza età, brizzolato e affascinante, del tipo I want it all, and I want it now. L'incontro è breve, lui sa già quel che vuole e carica nella sua Toyota nera la ragazza, un po' frastornata ma fondamentalmente eccitata e lusingata di essere stata "scelta" sebbene perfettamente consapevole che l'affinità politica sia la foglia di fico sopra una pulsione diciamo molto meno intellettuale.
Ma la guida del Senatore, completamente brillo, è troppo sicura di sè e l'auto finisce appunto in un pantano di acqua nera, sporca di bitume e olio. Kelly sprofonda lentamente, inesorabilmente in quel guazzo maleodorante, incastrata nell'abitacolo deformato dalla collisione; i suoi pensieri ripercorrono gli ultimi episodi della sua breve vita, cullando l'illusione che il Senatore - che nel frattempo è riuscito a uscire dall'auto scalciando via la ragazza che cercava di afferrarsi al suo calcagno - torni con i rinforzi a estrarla da quella trappola mortale. In un rovesciamento sarcastico della fiaba di Cenerentola, alla povera Kelly dell'uomo in disperata e disonorevole fuga non rimane che una scarpa. L'acqua riempie i polmoni della giovane e parallelamente la prosa si fa soffocante, in quella stupenda mimesi tra lo stile e l'immagine che solo le grandi penne sanno cesellare. Si infrange ogni sogno di una piccola, legittima, umana affermazione di sè, perchè lo spazio è stretto e c'è una sola via di fuga, perchè a salvarsi è sempre il più forte. E' questa la vera acqua nera, la putrida oleosa realtà di un mondo che marcisce nell'egotismo. Io sto con gli annegati.

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Review: Dio di illusioni

Dio di illusioni Dio di illusioni by Donna Tartt
My rating: 4 of 5 stars

Una storia che nonostante il fattaccio al nocciolo del plot non eccede mai in morbosità, non andando oltre la sfumatura noir, con uno stile dall' inconfondibile female touch nel disegno dei personaggi. La Tartt mette al centro la passione per il mondo Classico di un gruppo elitario di studenti sotto la guida del carismatico (ma flemmatico) professor Julian Morrow, una enclave nel classico college americano di feste e sballi assortiti. Nella cerchia dei sette giovani grecisti vi è anche il narratore Richard, proveniente da una famiglia non benestante della solare e volgare California; sarà lui a guidare il lettore nel vortice inesorabile che porta i ragazzi verso l'omicidio (non c'è spoiler, viene svelato sin dall'inizio dal narratore) e l' autodistruzione. Romanzo fiume che non si inghiotte in un sol boccone, una storia che viene forse dilatata al massimo quando il suo impasto starebbe in una mano; tuttavia la narratrice sa come accompagnare i suoi lettori nei meandri delle relazioni interpersonali, tenendosi sempre abilmente ai margini delle tinte forti e prediligendo il peso dell'impatto psicologico. Libro che potrà deludere tanto i giallisti quanto gli amanti del noir, in quanto accarezza i generi tenendosi però sempre a distanza di sicurezza, mentre potrà conquistare gli amanti degli intrecci sotterranei, in cui l'intelligenza sottilmente calcolatrice deve fare i conti con la banalità imprevedibile del caso.

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giovedì 17 agosto 2017

Review: Il pendolo di Foucault

Il pendolo di Foucault Il pendolo di Foucault by Umberto Eco
My rating: 3 of 5 stars

Troppa fatica per simulare un apprezzamento totale. Tuttavia lo spessore della cultura di Eco era davvero spaventoso; una erudizione "vittima" del troppo sapere, che esonda di riga in riga, che un po' respinge molto affascina. Quello di Eco è il trionfo della finzione, anzi della Finzione, quella che può permettersi di spaziare e giocare col materiale storico in lungo e in largo senza tema. Perfino un argomento dal quale ho sempre preso le distanze, quel pastone subculturale di esoterismo, numerologia, scienze occulte, Templari, Rosacroce e chi più ne ha più ne metta, trasmette una inimmaginabile forza evocativa grazie alla straordinaria padronanza dello scrittore. Che poi, c'è un delizioso equilibrio tra la gigantesca presa in giro (tutto regge su un fantomatico Piano cosmico inventato di sana pianta) e l'insondabile arcano, un po' come il numero di un prestigiatore del quale per quanto si sia certi del trucco non se ne venga a capo. Così è tutta la incredibile tessitura delle combinazioni, di quelle sorprendenti misteriose connessioni delle quali tutti - scettici e creduloni - siamo prima o poi scopritori incuriositi: "il mondo, infero e supero, è un sistema di corrispondenze dove tout se tient". La grandezza de Il Pendolo di Foucault sta qui: una materia facile preda di vaniloqui, retaggio dei peggiori cialtroni e cibo quotidiano dei più creduloni ("quelli mangiano di tutto, purchè sia ermetico), emana nonostante tutto il suo irresistibile fascino riuscendo a sua volta a mettere alla berlina ogni granitico razionalismo. Eco, autore davvero onnisciente, gioca su questo confine labile spingendo i suoi avvedutissimi protagonisti verso il sottile paradosso: "credo non ci sia più differenza, a un certo punto, tra abituarsi a fingere di credere e abituarsi a credere".

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Review: Il pendolo di Foucault

Il pendolo di Foucault Il pendolo di Foucault by Umberto Eco
My rating: 3 of 5 stars

Troppa fatica per simulare un apprezzamento totale. Tuttavia lo spessore della cultura di Eco era davvero spaventoso; una erudizione "vittima" del troppo sapere, che esonda di riga in riga, che un po' respinge molto affascina. Quello di Eco è il trionfo della finzione, anzi della Finzione, quella che può permettersi di spaziare e giocare col materiale storico in lungo e in largo senza tema. Perfino un argomento dal quale ho sempre preso le distanze, quel pastone subculturale di esoterismo, numerologia, scienze occulte, Templari, Rosacroce e chi più ne ha più ne metta, trasmette una inimmaginabile forza evocativa grazie alla straordinaria padronanza dello scrittore. Che poi, c'è un delizioso equilibrio tra la gigantesca presa in giro (tutto regge su un fantomatico Piano cosmico inventato di sana pianta) e l'insondabile arcano, un po' come il numero di un prestigiatore del quale per quanto si sia certi del trucco non se ne venga a capo. Così è tutta la incredibile tessitura delle combinazioni, di quelle sorprendenti misteriose connessioni delle quali tutti - scettici e creduloni - siamo prima o poi scopritori incuriositi: "il mondo, infero e supero, è un sistema di corrispondenze dove tout se tient". La grandezza de Il Pendolo di Foucault sta qui: una materia facile preda di vaniloqui, retaggio dei peggiori cialtroni e cibo quotidiano dei più creduloni ("quelli mangiano di tutto, purchè sia ermetico), emana nonostante tutto il suo irresistibile fascino riuscendo a sua volta a mettere alla berlina ogni granitico razionalismo. Eco, autore davvero onnisciente, gioca su questo confine labile spingendo i suoi avvedutissimi protagonisti verso il sottile paradosso: "credo non ci sia più differenza, a un certo punto, tra abituarsi a fingere di credere e abituarsi a credere".

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martedì 21 febbraio 2017

L'ultimo spettacolo, un blog collettivo su cinema e dintorni

La mia attività cinematografica si è trasferita in un blog collettivo nato da una costola di nientepopcorn dove parliamo di cinema, libri a tema e tante altre belle cose! Venite a leggerci ne:

https://lultimospettacolo.wordpress.com/


Qui continuerò a scrivere di romanzi e altre amenità letterarie (quando mi salterà per la testa)