Per tutt’i cerchi de lo ’nferno scuri non vidi spirto in Dio tanto
superbo; così Dante bolla il terribile Fucci, reo di aver fatto un
ingiurioso gestaccio indirizzandolo al Creatore stesso. Ovviamente non è
passata indolore neanche la bastardata del Canto precedente, dove predicendo al
poeta l’esilio il perfido pistoiese rincarava con una sorta di ‘ben ti sta’; ecco
dunque che il buon Dante tira fuori
tutta la scorta del suo veleno e lo sputa maledicendo l’intera città di
Pistoia: Ahi Pistoia, Pistoia, ché non
stanzi d’incenerarti sì che più non duri, poi che ’n mal fare il seme
tuo avanzi? Siamo ancora nella bolgia dei ladri, dove le creature punitrici
sono - non a caso – le serpi. Ci sono bisce aggrovigliate e sibilanti ovunque,
anche in groppa al centauro Caco che galoppa furioso con un drago dietro la
nuca in cerca del peccatore riottoso.
Tre spiriti si avvicinano a Virgilio e Dante chiedendo: “Chi siete voi?”;
manifesteranno nel prosieguo del Canto le proprie identità (come suol seguitar per alcun caso) nominandosi
vicendevolmente. Essi rappresentano l’occasione per un prodigioso esercizio di
stile dantesco, nel dipingere a tinte scure una terrificante scena che viene
preannunciata da calibrate parole di suspense: Se tu sé or, lettore, a creder lento ciò ch’io dirò, non sarà
maraviglia, ché io ‘l vidi, a pena il mi consento. Un serpente a sei piedi
– iconografia ricorrente quella di mettere le zampe ai serpenti, come a
rimarcare questa mancante dotazione naturale, quasi un problema di
rappresentazione – aggredisce uno dei tre peccatori, gli si avvinghia in tutto
il corpo mordendogli le guance. La descrizione in versi di questa sorta di
fusione tra serpe e uomo è davvero impressionante; gli arti superiori avvinti
alle braccia, quelli centrali al ventre, quelli inferiori alle cosce e la coda
passando tra le gambe finisce per allacciarsi alla schiena. Nemmeno l’edera non fu mai così avviticchiata
ad un albero. Poi s’appiccar, come di
calda cera fossero stati; avviene questa fusione delle due materie
corporee, questa mescolanza di colori che ricorda il brunirsi della carta innanzi da l’ardore, non ancora
carbonizzata. I due aspetti fusi insieme generano una creatura mostruosa – due e nessun l’immagine perversa parea –
che al termine della mutazione se ne va via mestamente, con lento passo.
Dante e Virgilio assistono ora ad
una seconda metamorfosi; un serpentello nero come gran di pepe si avventa fulmineo sull’ombelico di uno dei due
restanti dannati, ovvero sul luogo fisico del primo legame materno onde prima è preso nostro alimento. Il
trafitto non mostra alcuna istintiva reazione di spavento, ma sbadiglia come sonno o febbre l’assalisse; anima e
serpente si guardano e tra di essi
viene a formarsi una cortina di fumo. Taccia
Lucano… Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio… Dante gonfia un po’ il petto
davanti ai Classici che prima di lui hanno affrontato il tema della metamorfosi,
al fine di cucinare a puntino l’attenzione del lettore, e procede con una
sontuosa descrizione dello scambio di materia tra le due nature.
Laddove al serpente inizia a biforcarsi
la coda, all’uomo iniziano a unirsi gli arti inferiori; laddove al serpente si
allunga un paio di braccia, queste all’uomo si ritraggono fin dentro le ascelle
e così via, in un percorso visivo parallelo di umanizzazione del serpente e "serpentizzazione"
dell’uomo.