giovedì 5 novembre 2015

Inferno, Canto XXIV. La terribile stipa




Il Canto si apre con una lunga metafora bucolica, attraverso la quale Dante paragona la mutazione del suo stato d’animo a quella di un contadino che sul finire dell’inverno si lagna della brina scambiandola per neve, ma quando essa scompare sotto i primi raggi primaverili riprende fiducia e porta le pecore al pascolo. Il poeta infatti rimane inizialmente sbigottito per il corrucciamento di Virgilio, poi quando vede raddolcirsi nuovamente l’espressione nel viso del maestro si sente subitamente risollevato. I due risalgono faticosamente la rovina raggiungendo la sommità dell’argine; Dante si siede stremato (la lena m’era del polmon sì munta) ricevendo l’incoraggiamento ad alzarsi da parte del suo inflessibile maestro (Ormai convien che tu così ti spoltre… E però leva su: vinci l’ambascia). Lo sprone ottiene una immediata risposta da gioventù littoria – Levàmi allor, mostrandomi fornito…”Và, ch’i son forte e ardito!” – a cui Dante consegue anche un atteggiamento eroico camuffato (Parlando andava per non parer fievole). Ad un certo punto si ode indistinta una voce dal fosso sottostante, per cui i due viandanti decidono di approssimarsi alla VII Bolgia.
Qui scorgono una terribile stipa di serpenti tutti aggrovigliati, di una varietà tale da far impallidire le sabbie della Libia. Sopra questo viscido tappeto corrono i dannati, le mani legate da serpenti, addentati dalle bestie e poi subito accesi e arsi da una fiammata improvvisa. Dopo essere ridotti in cenere, gli stessi riacquistano le loro sembianze seduta stante in un ciclo infinito. Oh potenza di Dio, quant’è severa, che cotai colpi per vendetta croscia!
Com’è ormai consuetudine, viene pescato dai due esploratori dell’Ade un dannato a rappresentare simbolicamente la sua pena; la scelta cade su un pistoiese chiamato Vanni Fucci, conosciuto in vita da Dante, il quale non nasconde la vergogna di esser stato colto nella miseria della sua condizione. Il Fucci ammette di esser stato punito per il furto degli arredi sacri di una sacrestia, il cui reato terrenamente ricadde ingiustamente su altri; per non lasciare che Dante goda troppo di questo contrappasso, il pistoiese tira fuori un po’ di veleno profetizzando l’esilio dei Guelfi Neri da Pistoia, seguito entro breve da quello dei Bianchi da Firenze. Per sottolineare l'intenzionalità subdola, il Fucci dichiara di aver detto questo proprio perché doler ti debba. Dante il Guelfo bianco sente dunque nella VII Bolgia l’odore acre del suo imminente esilio.

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