mercoledì 4 novembre 2015

Top 100 FILM da vedere (dal n. 40 al n. 38)

40. Manhattan (1979) di Woody Allen

Lo skyline di New York e un vecchio amico di nome Ike con le sue paranoie e idiosincrasie filiformi, il suo irresistibile humour yiddish. Tornare al Woody Allen dei tempi d'oro è sempre un'esperienza elettrizzante. E' riscoprire la magistrale sequenza, a livello di inquadrature, luci ed ombre del dialogo amoroso al Planetarium. E' rivivere - non semplicemente "riascoltare" - la Rapsodia in Blu di George Gershwin, magicamente, epidermicamente legata alla Grande Mela. E' assistere con magnifico sfinimento ai dialoghi cerebrali, caustici, davanti al tavolino di un locale, negli interni di un loft, lungo le strade sovrastate dagli imponenti grattacieli a specchio, bere con avidità ogni singolo twist verbale di questo piccolo genio e dei suoi gagliardissimi compagni di colloqui (la Streep, la Keaton, Michael Murphy). Nel celeberrimo incipit Allen incide sul marmo la sua innata vocazione metropolitana: "New York era la sua città, e lo sarebbe sempre stata". Una città in bianco e nero che pulsa dei motivi di Gershwin, affatto realistica ma anzi totalmente e magicamente reinterpretata dal cinema.

39. I cavalieri del Nord Ovest (1949) di John Ford

L'amore che nutro verso i film di John Ford è vasto come la Monument Valley, sconfinato come gli orizzonti rosseggianti dove galoppa lontana una fila serrata di ombre, cappello svolazzante e sciabola sguainata. In questo luminescente She wore a yellow ribbon, secondo della Cavalry Trilogy, Ford porta la sua inarrivabile epica al traguardo del colore, negli sgargianti tramonti magici, surreali dietro al granitico vecchio John Wayne, in divisa blu e bretelle bianche, inginocchiato in un piccolo cimitero tra le mesas. Coi baffi grigi, la rughina che scende dalla fronte, gli occhi illanguiditi dall'età (in realtà invecchiato ad hoc per la pellicola), qui Duke impersona un capitano - cuor di leone, pasta d'uomo - a pochi giorni dalla pensione; il vecchio saggio e coraggioso, pronto a sacrificare sè stesso per la patria e i suoi ragazzi, che trova perfino la soluzione pacifica, con calma senile, ai giovani irruenti tamburi di guerra. A lui si accompagnano i soliti vecchi compagni di set, l'erculeo e bonario Victor MacLaglen, l'ex primastella George O'Brien, il giovanotto tempestoso John Agar e l'inguantato biondino Harry Carey jr. Il quadro si completa con l'espressiva ed energica Mildred Natwick e l'oca giuliva Joanne Dru. Vorrei riguardare questi film centinaia e centinaia di volte, fino a impararli a memoria. L'ingresso trionfale di Ford nel mondo del colore è un'estasi visiva (a dire il vero c'era già arrivato con Il texano, ma il dislivello tra le due opere è notevole), le sgroppate delle sue scuderie hanno scolpito la storia del western come forse ahimè i tendini di quei poveri, magnifici cavalli lanciati a razzo giù per i dirupi.

38. Gli spietati (1992) di Clint Eastwood

Il western invecchia bene, come il whisky, ed Eastwood ne è la riprova. In realtà il suo film si presenta un po' come una sorta di pietra tombale, di epitaffio del genere; ha in sè qualcosa di definitivo, oltre ad essere uno straordinario omaggio ai suoi maestri (Leone in primis). Il vecchio West si spoglia dell'eroismo convenzionale, perchè non c'è nulla di eroico nell'ammazzare a sangue freddo. Il protagonista, l'ormai vecchio Will Munny, torna nella spirale della violenza dopo un cammino di redenzione tirato il più a lungo possibile, in memoria della moglie defunta ed in virtù dei due figli piccoli. Ma i soldi chiamano, il sangue pure. Assistiamo alla decostruzione di una integrità drammaticamente posticcia, una sovrastruttura morale che non appartiene al vecchio Munny ed al suo feroce passato. Notevoli le interpretazioni; per signorile perfidia svetta quella di Bob l' Inglese / Richard Harris (per lui una piccola ma pesantissima parte; egli rappresenta la profonda inutilità dell'arrivo trionfale, del gran personaggio e le sue eleganti colt, perchè spesso ciò che si reputa leggendario è sostanzialmente vano), e per repubblicana brutalità quella del tutore della legge Little Bill / Gene Hackman, forse nel ruolo migliore della sua onorata carriera. Forse il film sarebbe stato perfetto se Eastwood non avesse ceduto alla "necessità" di un finale canonico, che in fondo sembra sempre un po' rincuorante; esigenza di mercato o suo retaggio personale? Chissà.

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