40. Manhattan (1979) di Woody Allen
Lo skyline di New York e un
vecchio amico di nome Ike con le sue paranoie e idiosincrasie filiformi, il suo
irresistibile humour yiddish. Tornare al Woody Allen dei tempi d'oro è sempre
un'esperienza elettrizzante. E' riscoprire la magistrale sequenza, a livello di
inquadrature, luci ed ombre del dialogo amoroso al Planetarium. E' rivivere -
non semplicemente "riascoltare" - la Rapsodia in Blu di George
Gershwin, magicamente, epidermicamente legata alla Grande Mela. E' assistere
con magnifico sfinimento ai dialoghi cerebrali, caustici, davanti al tavolino
di un locale, negli interni di un loft, lungo le strade sovrastate dagli
imponenti grattacieli a specchio, bere con avidità ogni singolo twist verbale
di questo piccolo genio e dei suoi gagliardissimi compagni di colloqui (la
Streep, la Keaton, Michael Murphy). Nel celeberrimo incipit Allen incide sul
marmo la sua innata vocazione metropolitana: "New York era la sua
città, e lo sarebbe sempre stata". Una città in bianco e nero che
pulsa dei motivi di Gershwin, affatto realistica ma anzi totalmente e
magicamente reinterpretata dal cinema.
39. I cavalieri del Nord Ovest (1949) di John Ford
L'amore che nutro verso i film di
John Ford è vasto come la Monument Valley, sconfinato come gli orizzonti
rosseggianti dove galoppa lontana una fila serrata di ombre, cappello
svolazzante e sciabola sguainata. In questo luminescente She wore a yellow
ribbon, secondo della Cavalry Trilogy, Ford porta la sua inarrivabile epica
al traguardo del colore, negli sgargianti tramonti magici, surreali dietro al
granitico vecchio John Wayne, in divisa blu e bretelle bianche, inginocchiato
in un piccolo cimitero tra le mesas. Coi baffi grigi, la rughina che
scende dalla fronte, gli occhi illanguiditi dall'età (in realtà invecchiato ad
hoc per la pellicola), qui Duke impersona un capitano - cuor di leone,
pasta d'uomo - a pochi giorni dalla pensione; il vecchio saggio e coraggioso,
pronto a sacrificare sè stesso per la patria e i suoi ragazzi, che trova
perfino la soluzione pacifica, con calma senile, ai giovani irruenti tamburi di
guerra. A lui si accompagnano i soliti vecchi compagni di set, l'erculeo e
bonario Victor MacLaglen, l'ex primastella George O'Brien, il giovanotto
tempestoso John Agar e l'inguantato biondino Harry Carey jr. Il quadro si
completa con l'espressiva ed energica Mildred Natwick e l'oca giuliva Joanne
Dru. Vorrei riguardare questi film centinaia e centinaia di volte, fino a
impararli a memoria. L'ingresso trionfale di Ford nel mondo del colore è
un'estasi visiva (a dire il vero c'era già arrivato con Il texano, ma il
dislivello tra le due opere è notevole), le sgroppate delle sue scuderie hanno
scolpito la storia del western come forse ahimè i tendini di quei poveri,
magnifici cavalli lanciati a razzo giù per i dirupi.
38. Gli spietati (1992) di Clint Eastwood
Il western invecchia bene, come
il whisky, ed Eastwood ne è la riprova. In realtà il suo film si presenta un
po' come una sorta di pietra tombale, di epitaffio del genere; ha in sè
qualcosa di definitivo, oltre ad essere uno straordinario omaggio ai suoi
maestri (Leone in primis). Il vecchio West si spoglia dell'eroismo
convenzionale, perchè non c'è nulla di eroico nell'ammazzare a sangue freddo.
Il protagonista, l'ormai vecchio Will Munny, torna nella spirale della violenza
dopo un cammino di redenzione tirato il più a lungo possibile, in memoria della
moglie defunta ed in virtù dei due figli piccoli. Ma i soldi chiamano, il
sangue pure. Assistiamo alla decostruzione di una integrità drammaticamente
posticcia, una sovrastruttura morale che non appartiene al vecchio Munny ed al
suo feroce passato. Notevoli le interpretazioni; per signorile perfidia svetta
quella di Bob l' Inglese / Richard Harris (per lui una piccola ma
pesantissima parte; egli rappresenta la profonda inutilità dell'arrivo trionfale,
del gran personaggio e le sue eleganti colt, perchè spesso ciò che si reputa
leggendario è sostanzialmente vano), e per repubblicana brutalità quella del
tutore della legge Little Bill / Gene Hackman, forse nel ruolo migliore
della sua onorata carriera. Forse il film sarebbe stato perfetto se Eastwood
non avesse ceduto alla "necessità" di un finale canonico, che in
fondo sembra sempre un po' rincuorante; esigenza di mercato o suo retaggio
personale? Chissà.
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