lunedì 21 dicembre 2015

Top 100 FILM da vedere (dal n. 22 al n. 20)

22. I compari (1971) di Robert Altman

Incantevole western, impastato di fango e gelo, dove ogni cosa è al posto giusto, frutto di un perfetto concerto di ispirazioni; alla geniale regia di Altman si affiancano la valida sceneggiatura di una storia di soldi e dolore; una fotografia struggente e delicata che diffonde di rossa fiamma gli interni e impallidisce al livido orizzonte innevato; le magiche cantilene sugli arpeggi di Leonard Cohen; l'ottima verve di Warren Beatty e Julie Christie (attori per i quali generalmente non stravedo); una scenografia realistica, robusta, lignea, fatta di passerelle sui pantani, ponti sospesi, rozzi banconi e tavoli da gioco poco illuminati.
La neve ammanta silenziosa e immacolata la morte imminente in un finale nei canoni del duello risolutore, ma poeticamente connotato dalla dolente interruzione di una storia d'amore appena uscita dal bozzolo, tra due caratteri fieri e apparentemente immuni al sentimento... Per chi come me ha amato la serie Deadwood, impietosamente mozzata dalla HBO alla terza stagione, non sarà difficile scorgere i numerosi spunti da cui ha tratto ispirazione David Milch. Uno dei tanti gioielli nel cinema di Altman, un regista che resta sempre un po' ai margini delle chiacchiere da caffé sulla settima arte.
 
21. Inception (2010) di Christopher Nolan

Dopo Matrix, meglio di Matrix. Non sapevo proprio che mi stavo perdendo a non averlo ancora visto. Il problema è che a volte a sentire fanfare e peana su certi film ti scatta quasi una allergia preventiva; e invece... Strepitoso mix di adrenalina e stratificazione della realtà, Nolan ha giocato con la materia dei sogni senza mai scadere nella faciloneria dell'assurdo. Fino all'ultimo il confine tra realtà e sogno rimane incerto, eppure tutto è costruito come una perfetta architettura. DiCaprio mi dà questo effetto, di un attore che alterna recitazioni gommose e inconsistenti a prove di altissimo livello, e in questo caso è decisamente al top.
 
20. Mezzogiorno di fuoco (1952) di Fred Zinnemann

Il vero protagonista è il tempo, scandito da un orologio a pendolo, che inesorabilmente ci conduce verso il "mezzogiorno di fuoco" in un crescendo di tensione. Il bianco e nero di Floyd Crosby è luminoso, accende i contrasti quasi a sottolineare lo zenit solare. E poi c'è l'espressione tesa di Gary Cooper, con la sua mitica riga in parte, gli occhi inquieti e profondi, i solchi lungo le guance e il labbro inferiore leggermente sporgente; quel viso è una vera icona del cinema sulla quale giustamente si sofferma la cinepresa di Zinnemann, una scultura michelangiolesca. Tutti gli altri - vili, indifferenti o impotenti al dramma dello sceriffo - sfigurano davanti al personaggio gigantesco e umano di Cooper; dal "giovincello col distintivo" Lloyd Bridges alla sensuale Jurado, fino alla principesca Grace Kelly che pur si rivaluta nel finale, sono tutti piccoli satelliti attorno alla grande stella. Immortale la colonna sonora, con quelle percussioni stantuffanti e quel riff cantabile.

mercoledì 2 dicembre 2015

Top 100 FILM da vedere (dal n.25 al n. 23)

25. L’orgoglio degli Amberson (1942) di Orson Welles

Questi Amberson sono letteralmente magnifici - come dice il titolo stesso in lingua originale - pomposi, collezionisti di vanità ed intrighi di palazzo. Vorresti quasi vederli scendere in picchiata, con la maligna invidia del popolo mormorante, vorresti vedere la loro elegante slitta imbottita di costose pellicce ribaltarsi sulla china innevata. E Orson Welles ti serve questo piatto, livoroso giacobino, ma non potrai gustartelo perché sarai già morto o troppo vecchio per godertelo. Ah, prodigioso e velenosissimo regista, gloria imperitura del Cinema, che occhio azzurro e feroce aveva sulla piccineria della gente; anche se la bitter-comedy di Tarkington non ha lasciato un segno perenne, ci ha pensato il genio della sua cinepresa.
Indimenticabili Joseph Cotten e Tim Holt, suprema Agnes Moorehead, una zia pettegola e ipocondriaca che fa impallidire perfino la protagonista, la "divinamente ridicola" Dolores Costello. Insolitamente bella la versione colorizzata, con un trionfo di rosa.

24. Il petroliere (2007) di Paul T. Anderson
 
"Spero che perdoniate il mio modo di parlare semplice, all'antica, da uomo che scava nella melma", questo è un estratto che delinea bene il ruvido spietato Daniel Plainview, protagonista di una storia di cieca misantropia, petroliere di una cupidigia fredda e "seriale", incapace di godere i frutti della ricchezza, sullo sfondo di un'America ultrareligiosa fino al fanatismo. Un capolavoro del cinema uscito da un romanzo onestamente invecchiato maluccio (Upton Sinclair), un film in un certo senso faulkneriano che incrocia meschinità ed eresia (manca però l'ingrediente carnale); la sequenza del battesimo, di magniloquente brutalità, è un esempio di grande cinema, soprattutto se messa in controluce con la devastante sequenza finale alla sala bowling. "La mia barriera di odio si è innalzata, lenta, negli anni". L'autodistruzione di Plainview trova il suo completamento in un'altra sequenza da brividi; lo scricchiolio di cocci, l'enormità vacua di un corridoio, due uomini entrano nell' ufficio oscuro dell'invecchiato Daniel, si tesse un dialogo impossibile tra due uomini che un tempo erano padre e figlio, incapaci di comunicare tra loro.
Per me Daniel Day Lewis è il più grande attore vivente, autentico istrione in un film di potenza straordinaria. La dedica del regista al mai troppo compianto Altman completa il mio adescamento.
Ultima nota sulle musiche di Jonny Greenwood; se mi fosse capitato di ascoltarle al di fuori del film, avrei detto che si tratta di musica inascoltabile. Quel cicalio di archi, quello schianto del pianoforte, quel rumore assordante, quel crescendo ripetitivo da pianola Bontempi; ecco, tutto questo ha conosciuto una incredibile perfetta simbiosi con le immagini del film, come un bozzolo che diventa farfalla, anzi una terrificante magnifica falena notturna.

23. Roma, città aperta (1945) di Roberto Rossellini
 
Forse assegnare un "10" a Roma città aperta potrà sembrare un atto dovuto. C'è di oggettivo che questo film restituisce un ritratto lucido dell'occupazione nazista a Roma pur trattandosi praticamente di un instant-movie, dato che le ferite della Grande Guerra erano ancora freschissime. Ci voleva un grande regista per capire e raccontare quel pezzo di storia capitolina e nazionale, capace di conferire la forma dell'Arte ad una naturale e purificante retorica della Liberazione; Rossellini ha filmato i giorni di Roma occupata come nessun altro, in quello che Flaiano definì una sorta di "documentario romanzato".
Ma l'oggettivo non può essere un dogma, perciò devo aggiungere che questo film mi ha catturato innanzitutto per la qualità delle immagini, un bianco e nero nitido e raffinato. Mi ha stregato per l'essenzialità dell'ambientazione, per le inquadrature di un pianerottolo che vede lacerarsi la tranquilla staticità domestica e mostrare il dinamico e inquieto percorrere le scale, per il simbolismo leggero ed efficace, per la sua umile carica di religiosità. Mi ha conquistato per l'eccelsa interpretazione di Anna Magnani; io refrattario alle inflessioni, io e il mio schema mentale che identifica il romanaccio borgataro al filmetto trasteverino de Sora Lella, mi ricredo, mi pento e mi dolgo con tutto il cuore, e dichiaro grande amore per questa attrice e la sua incredibile naturalezza di scena, un miracolo cinematografico.