Robert Altman


Robert Altman 
Kansas City (KS), 1925 - West Hollywood (CA), 2006

FILMOGRAFIA SCELTA:

I compari (McCabe & Mrs. Miller), 1971
Incantevole western, impastato di fango e gelo, dove ogni cosa è al posto giusto, frutto di un perfetto concerto di ispirazioni; alla geniale regia di Altman si affiancano la valida sceneggiatura di una storia di soldi e dolore; una fotografia struggente e delicata (Zsigmond) che diffonde di rossa fiamma gli interni e impallidisce al livido orizzonte innevato; le magiche cantilene sugli arpeggi di Leonard Cohen; l'ottima verve di Warren Beatty e Julie Christie (attori per i quali generalmente non stravedo); una scenografia realistica, robusta, lignea, fatta di passerelle sui pantani, ponti sospesi, rozzi banconi e tavoli da gioco poco illuminati.
La neve ammanta silenziosa e immacolata la morte imminente in un finale nei canoni del duello risolutore, ma poeticamente connotato dalla dolente interruzione di una storia d'amore appena uscita dal bozzolo, tra due caratteri fieri e apparentemente immuni al sentimento...
Per chi come me ha amato la serie Deadwood, impietosamente mozzata dalla HBO alla terza stagione, non sarà difficile scorgere i numerosi spunti da cui ha tratto ispirazione David Milch.
Uno dei tanti gioielli nel cinema di Altman, un regista che resta sempre un po' ai margini delle chiacchiere da caffé sulla settima arte.

Il lungo addio (The Long Goodbye), 1973
Altman rifà un po' il trucco all'hardboiled, con un risultato sorprendente.
C'è Elliot Gould al top di una carriera destinata poi a un lungo declino, nei panni di un Marlowe assolutamente perfetto nonostante la "modernizzazione" operata dal regista.
Sigaretta che pende dall'angolo della bocca, battuta sempre pronta, flemmatico, imperturbabile davanti alle minacce del malavitoso (il regista Mark Rydell) come davanti alle vicine in deshabillé.
E c'è un massiccio e barbuto Sterling Hayden, altro attore dalle alterne fortune, in gran vena artistica per il ruolo dello scrittore alcolizzato, irascibile e decadente.
Sulla regia, c'è solo da ammirare estasiati; da antologia il piano sequenza tra la spiaggia e la villa a Malibù, con inquadrature sovrapposte grazie al riflesso delle porte finestre.
Laconico e magnetico il refrain al piano di Williams/Mercer, riproposto qui e là in varie versioni; la migliore in un fumoso locale con la voce rauca, un po' in stile Tom Waits, di Jack Sheldon.
Finale gelido e reciso, giustamente entrato nella storia del cinema.

California Poker (California Split), 1974
Il duetto Gould-Segal si destreggia alla grande: svelti e gigioneschi, belli e sfaccendati come modello impone ai figliastri dell’American Dream. Robert Altman, che regista. Ci vorrebbe una analisi approfondita, shot by shot, per tirar fuori con completezza la versatilità del genio, la cura maniacale del set e degli attori, comparse comprese. Tra le tante cose, resto sempre meravigliato dalla rubrica di attori del casting altmaniano, vere facce da schermo, qui singolarmente agée tra i parrucconi cotonati delle signore e le tempie lustre e le basette grigie degli old gamblers.
Il cinema di Hollywood è un grande e rutilante casinò, dove anche i giocatori vincenti possono venir presi da una strana, improvvisa tristezza. Cercatelo in rete, in lingua originale, perchè in Italia – mai capito perchè – i film di Altman sono più rari di una scala reale.

Nashville (Nashville), 1975
Un magnifico film corale, incastrato nelle profondità dell'America con basette, chitarra e stivali, quell'America cinica, virile e spensierata che trova nido nella musica folk e country. Un film che è drammaticamente fuori commercio nel mercato italiano (non è mai, dico mai uscito in dvd!), ma che per fortuna si trova attualmente in 16 parti su youtube. Bisogna destreggiarsi un po' con la lingua inglese, e può essere d'aiuto lo script disponibile in rete.
La regia di Altman è un concept assolutamente originale, i film alla Altman sono concerti polifonici di voci e rumori di fondo, gallerie di personaggi (qui ce ne sono almeno una ventina) tutti con la loro collocazione precisa nella storia; Nashville costa allo spettatore un po' di sana fatica - per quanto mi riguarda, assolutamente premiata! - ma venire a capo di cotanta matassa non è alla lunga impossibile. Come in un vortice, tutto converge verso il pathos finale, in cui assistiamo ad un corale irresponsabile It don't worry me che suona come un atto di accusa clamoroso all' intorpidimento della folla, che non si smuove davanti a nulla. Che vuole entertainment, si fa insensibile e ingorda, come la platea maschile che da SueLynne vuole solo lo spogliarello in una scena davvero penosa, lei che canta stonata e frastornata mentre intorno piovono soldi e beceri cori da stadio. La folla che fischia la famosa cantante Barbara Jean (Ronee Blakley, stupenda ed eterea nel suo pallore, nelle sue movenze da dea scheletrica, nei suoi lunghi vestiti bianchi) in un momento di fragilità umana. La folla che non discerne, ma beve tutto ciò che le viene offerto se ha le bollicine; su questo principio si muove la politica maneggiona, con i suoi bravi galoppini, pronta a domare e imbrigliare la musica, il miglior viatico per arrivare ai rudi baffuti del Tennessee e alle loro casalinghe disperate.
Un film ferocissimo, un'opera d'arte che DEVE ASSOLUTAMENTE essere restituita al mercato nazionale. 

Tre donne (3 Women), 1977
Un Altman trasognato e feroce, stavolta senza ironia di scorta.
La storia ruota sullo strano rapporto tra Millie, frivola logorroica che nessuno ascolta, e Pinky, ragazza di campagna vagamente inquietante e decisamente problematica.
La Spacek sembra ancora fresca del sangue di Carrie, e nella sequenza della preparazione di un (terrificante!) buffet anni '70 le esplode il pomodoro sul vestito come in una specie di ironico tributo al film di De Palma.
La terza donna (da cui il titolo) è una misteriosa e silenziosa artista decorativa, incinta. Pare che Altman l'abbia aggiunta così, perchè gli suonava meglio Three Women che Two Women! Sì, perchè è bene sapere che questo film non ha uno script, che il vecchio Bob l'aveva presentato alla Fox come il frutto di un suo lungo incubo.
Quello che ci propone il regista è sempre un mondo sordo, cinico, irritante nella sua inalterabile freddezza. Ma qui risulta perfino peggiore dell'ottusa e insensibile Nashville.
Ci sono in questo film piani sequenza memorabili. La visita dei due spaesatissimi vecchi genitori alla figlia in coma, la clinica che ricorda quella della Montagna Incantata di Thomas Mann; la lunga sequenza onirica in una amalgama di identità, con l'arte mostruosa della third woman e la rimbombante musica di sottofondo.
Un mondo gretto e sonnambulo, in dormiveglia, come immerso in un acquario (alcune inquadrature "galleggiano" tra l'aria e l'acqua) dove dominano una femminilità frigida e instabile e una mascolinità ridicola, ubriaca, fedifraga.
Un lungo, doloroso, travaglio che si conclude nel gelo della morte. So cold.
Shelley Duvall e Sissy Spacek sono straordinarie.
Scenografie fantastiche, a partire da Dodge City, un set da film western con dietro un campo da motocross e un tiro a segno, e le piscine con i mostruosi decori sul fondo. 

I Protagonisti  (The Player), 1992
Risparmiandovi le solite lamentele sul tisico mercato home video riservato al geniale Altman, o sull'assurdità della traduzione di certi titoli, andrò dritto al punto. Ciò che conta è che questo The Player ve lo potete vedere in lingua originale per gustare l'inventiva e la grandezza di questo regista, unico nella sua capacità di assemblare con grazia una folta schiera di stelle hollywoodiane, dando loro un guizzo di luce, un frame, due battute poco più. E lasciando lo spettatore avviluppato nel torbido di una trama da thriller psicologico che perlustra i gangli oscuri della produzione, mettendo in luce particolarmente lo scontro tra scrittura e mercato, ammiccando insistentemente ai grandi film tra locandine, citazioni e paralleli. Una visione parossistica che punta il dito contro la produzione blockbuster dove gli ingredienti sono sempre quelli, e vengono indicati chiaramente dal protagonista, il produttore esecutivo Mill: Suspense, laughter, violence, hope, heart, nudity, sex, and happy endings, mainly happy endings. Il protagonista, appunto, è il miglior Tim Robbins dopo Shawshank Redemption, col suo viso liscio e il suo sguardo glaciale da enfant maudit.
Giustamente passato alla storia il lunghissimo piano sequenza iniziale, che omaggia tra gli altri il meraviglioso Touch of Evil di Welles.  

America Oggi (Short Cuts), 1993
Non so se esista un altro regista in grado di dare spessore vero ad una ventina di personaggi contemporaneamente, a creare una ragnatela così perfetta di intrecci. Ogni storia si collega ad un'altra mediante un'infinita gamma di scorciatoie - shortcuts - nel disegno di un un quadro complesso e armonioso. Nashville è stato un magnifico fiore selvaggio, un archetipo imperfetto – anche se talvolta l'imperfezione può risultare più affascinante – di questo strabiliante maturo mosaico di vite che è 'Short cuts'; partendo da un soggetto minimalista per antonomasia (i racconti di Carver), Altman riesce a trasmettere allo spettatore quello straniante effetto ottico mediante il quale da vicino metti a fuoco i singoli tasselli, mentre allontanandosi solo di qualche passo prende forma una visione d'insieme. Bisogna prendersi "qualche passo" dalla visione di questo film; ti impegna le meningi anche dopo la visione, ti costringe ad afferrare le immagini che hai visto, a convogliare nel calderone mentale le frasi che hai sentito. Ti restituisce uno specchio frantumato della comunità urbana di Los Angeles (ma come ogni buona pellicola ha il dono dell'universalità, basta saper contestualizzare) con un utilizzo attento del paradosso , funzionale ad una inquietante verosimiglianza. C'è probabilmente un po' di esagerazione nel tranquillo weekend al fiume dei tre compagnoni che non si fanno guastare la pesca dal cadavere di una ragazza, in bella (e macabra) vista sul fondale; com'era forse esagerato il canto corale "It don't worry me" davanti al traumatico omicidio in Nashville. Per Altman la verità sembra non stare nel mezzo, ma agli estremi; la società si identifica meglio nella sua folle ed irresponsabile ricerca dell'entertainment ad ogni costo.
Emergono dalle dolenti singolarità di questo film le crisi coniugali e quelle tra amanti, dove la "scomoda" o "ingombrante" presenza dei figli esaspera le divergenze; i bambini sono presenze poco invadenti, come la timida discrezione di Casey, che investito torna diligentemenete a casa per entrare in coma, oppure genuine come il piccolo Chad che ipnotizzato dalla dolce, quasi suadente litania "tuo padre è un figlio di puttana" da parte della madre (la sempre straordinaria Frances McDormand), reagisce con un disarmante sorriso, scuotendo semplicemente il capo. O innocenti spettatori del degradante lavoro della madre, telefonista di una hot line. O ancora sono un informe gruppo di marmocchi, come i pargoli del duro poliziotto Gene Shepard (un eccezionale Tim Robbins), esserini vocianti senza la dignità di una personalità propria e distinta, che pure continuano festosi a gridare: "E' tornato papà".
Proprio mentre su L.A. piove il disinfestante dagli elicotteri per combattere la biblica invasione di mosche 'medfly' (fatto realmente accaduto nel 1989 in California), le relazioni tra coppie si fanno a dir poco avvelenate; il sesso diventa un'arma, un atto di accusa, l'arena di uno scontro senza pietà tra uomo e donna.
Anche nel dipingere la solitudine dei suoi antieroi emerge la grande vena artistica di Altman, nel catturare i momenti in cui mettono a nudo la loro disperata esistenza. La carezzevole tristezza di un locale jazz per Earl (splendidamente funereo Tom Waits), la lucida e dispettosa gelosia di Stormy (magnetico Peter Gallagher), i piccoli raptus della violoncellista Lori Singer, perfino l'angosciosa attesa di Andie MacDowell che per me ha l'espressività di una bambola di porcellana.
In un film ci sono generalmente dei 'personaggi', qui mi sembrano emergere più nettamente delle 'personalità'; non è solo un giochetto di parole, secondo me il tocco registico di Altman butta realmente gli attori fuori dal confortevole nido della recitazione, pare quasi spingerli ad una sorta di outing sul ciglio di un burrone (qualche giornalista lo definì il "dittatore benigno del set").
Con la visione di questo film adottai decisamente Robert Altman tra i miei registi preferiti, sentendo l'impulso di recuperare quanto prima la sua opera omnia. 


La fortuna di Cookie  (Cookie's fortune), 1999
Esilarante commedia amara dal gusto squisitamente southern con sottofondo blues. Certo un Altman più rilassato, con picchi di comicità, ma la sua ilarità si rivela sempre una polpetta avvelenata; straordinarie Glenn Close e Julianne Moore, psyco-sorelle dal passato oscuro, magnifica Patricia Neal vecchia, traballante, rincitrullita e bellissima. Come al solito da tutto il cast viene spremuto il meglio, con Altman qualsiasi bruco diventava farfalla. 

Radio America  (A Prairie Home Companion), 2006
L'uscita di scena di uno dei più grandi registi di sempre, salutato da un cast eccezionale. Malinconia, humour, un pizzico di mistero e tanta buona musica per un amoroso canto a madre Radio. Altman riusciva a estrarre il meglio da ogni attore, ed è per questo motivo che i suoi film corali sono passati alla storia; qui le regine della scena sono Meryl Streep e Lily Tomlin, ma guardate (e ascoltate!) quanto è bravo Garrison Keillor, storico conduttore radiofonico. Brillante il duo country formato da Woody Harrelson e J.C. Reilly, spumeggiante Kevin Kline.
 

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