John Ford

John Ford (Sean Aloysius O'Fearna)
Cape Elizabeth (ME), 1894 - Palm Desert (CA) 1973

FILMOGRAFIA SCELTA:

Il cavallo d'acciaio (The Iron Horse), 1924
Epica ricostruzione dell' hell on wheels, l'odissea terrestre della realizzazione di una ferrovia che percorre gli Stati Uniti come un "lucente sentiero da mare a mare", questo film è una storia nella Storia, con il tipico intreccio tra finzione romantica e realtà di fatti e personaggi, mitici e mitizzati, dell'ottocento americano. Due linee ferroviarie, la Union Pacific e la Central Pacific, cercano il loro punto di giuntura (the wedding of the rails) attraverso pianure popolate da indiani sul piede di guerra; Abe Lincoln deve scegliere se dare soldi alla guerra o alla ferrovia, e in uno dei tanti momenti di retorica americana alla 'pump and circumstance' sceglierà per il bene del progresso e della pace futura. Migliaia di lavoratori, irlandesi, italiani e cinesi, batteranno i loro lunghi martelli cantando Drill, ye tarriers drill, esposti ai rigori dell'inverno e alle frecce dei cheyenne, disposti a far finire uno sciopero - per il bene della retorica nazionale - anche solo per gli occhioni luminosi della figlia del padrone. In attesa delle mandrie, dovranno contentarsi di masticare la stoppacciosa carne di bisonte, gentilmente procurata da un cacciatore d'eccezione, il giovane Buffalo Bill.
L'evolversi della Storia scorre in parallelo con lo screenplay; il giovane Davy Brandon, figlio di un agrimensore che ha dedicato la sua vita al sogno di una ferrovia transcontinentale ucciso a sangue freddo dal rinnegato Due-Dita, troverà il passaggio tra le Black Hills che consentirà all'impresario Marsh di evitare la costosa deviazione attraverso lo Smokey River. E troverà naturalmente la vendetta per suo padre, oltre alla classica irrinunciabile storia d'amore.
L'intrepido belloccio al centro della storia è interpretato dall'ottimo George O'Brien, lo stralunato protagonista in "Aurora" di Murnau, a cui si affianca un buon cast nel quale eccelle il caratterista J. Farrell Macdonald nel ruolo del rustico irlandese caporale Casey.

Il prigioniero dell'Isola degli Squali (The Prisoner of Shark Island), 1936
Un innocente finisce in catene, colpevole solo di aver soccorso inconsapevolmente l'assassino di Lincoln che stava fuggendo verso la Virginia con una gamba spezzata durante quella tragica notte del 1865. Questa romanzesca ricostruzione storica delle traversie del presunto cospiratore Samuel Mudd è forse una attestazione di vago confederatismo da parte di Ford, sotto forma di un vero e proprio atto di accusa nei confronti del frettoloso giustizialismo nordista. L'irlandese guercio del resto non ha mai nascosto una certa passione dixie, che gli si può certo perdonare per il taglio morale delle sue opere dove il giusto non è mai il potente, e dove il valore di un uomo o di una donna sta nel cuore e non nelle convenzioni sociali.
Warner Baxter ha un viso paterno e bonario, incarna bene la parte, seppur a onor del vero non si possa certo definire un attore eccezionale. Sempre efficace il lungo appuntito Carradine, cattivo a tempo determinato del film. La regia di Ford "accompagna" la storia concedendosi pochi lampi, eccellente all'inizio (dal fattaccio alla fuga dell'assassino fino all'arresto di Mudd) poi in qualche modo "si accomoda" nella più lunga parte carceraria, che ovviamente agli occhi dello spettatore d'oggi non può competere con il realismo delle crude pellicole di genere successive.
Ma è una storia in cui non vincono la forza fisica o la scaltrezza, bensì la calma e un alto concetto di onore nella professione medica. Si suppone che i numerosi e terrificanti squali dell'isola, se avessero potuto, avrebbero protestato per l'assoluta marginalità del ruolo.

Uragano (The Hurricane), 1937
Una autentica perla dei mari del Sud, questo classico dell'avventura di mare firmato da John Ford. Il destino si accanisce contro l'onesto marinaio Terangi, e solo un terribile uragano potrà sparigliare le carte; i protagonisti, l'atletico John Hall e la bella bruna Dorothy Lamour, sono la coppia di stelle da cui si sprigionano pathos ed erotismo, ma come spesso accade il maggior fascino deriva dai comprimari.
Molto efficaci il buon padre Paul, col volto rugoso e potente di C. Aubrey Smith, ed il prototipo del buon ubriacone di Thomas Mitchell, una versione marinara del rubicondo dott. Josiah Boone in Stagecoach. Anche l'impettito Raymond Massey se la cava egregiamente nei panni del freddo e rigoroso governatore francese.
Da vedere, anche per l'incredibile impatto delle scene di tempesta, una autentica furia degli elementi perfettamente catturata dall'epica cinematografica di Ford; ancora una volta, dopo Il prigioniero dell'Isola degli Squali dell'anno precedente, il Guercio racconta di processi ingiusti, languore delle carceri, secondini aguzzini (John Carradine bissa il ruolo, tale e quale) e avventurosi tentativi di fuga verso l'amore perduto.

Ombre rosse (Stagecoach), 1939
Grande western, ma direi grandissimo film al di là del genere. Una straordinaria fuga dalla 'Lega per la moralità', una rivincita epica di prostitute e alcolizzati sul beghinismo americano (e siamo nel 1939...) quando John Wayne non era ancora un massone e un' icona repubblicana. Commovente nella sua dolce pacatezza Claire Trevor, nei panni della prosituta Dallas, affilato e signorile John Carradine (il giocatore gentiluomo e sudista Hatfield). La regia di John Ford è un trattato cristallino di cinematografia, per lo spettatore colto come per quello semplicemente curioso ed appassionato (come me).

Furore (The Grapes of Wrath), 1940
Proseguo con gran diletto la mia personale esplorazione del grande cinema anni '40, e mi imbatto in questo magnifico Furore di John Ford. Quattro anni or sono lessi il grande romanzo di Steinbeck dal quale è tratto (pur con i grossi limiti dell'edizione italiana...), quindi il soggetto lo conoscevo bene; un dramma picaresco, il difficile viaggio degli oakies (nomignolo spregiativo affibbiato ai contadini dell'Oklahoma immigrati in California) defraudati dal progresso tecnologico, un tuffo nell'inferno dei migranti (che oggi sono anche di più, sebbene conoscano diverse latitudini).
La cinepresa fordiana è invece per me una felice novità (qualche suo western l'avrò pure visto, in tenera età, ma chi se lo ricorda più?); le continue dissolvenze danno dinamicità (le esigenze di sintesi dal romanzo sposano in questo caso una felice trasposizione), vi sono sequenze indimenticabili (il primo dialogo tra Tom Joad e Casey, la loro passeggiata verso casa, il magistrale monologo di John Qualen/Muley) ed Henry Fonda è perfetto.

Com'era verde la mia valle (How Green Was My Valley), 1941
Ford pesca a piene mani dal vecchio romanzone di Llewellyn (che oggi campeggia ingiallito in ogni bancarella o robivecchi che si rispetti, fossile di un best-selling d'altri tempi) mettendo in scena la tragedia dei minatori gallesi a inizio secolo, in un mondo che volgeva verso l'industrializzazione spietata delle riduzioni salariali e dal licenziamento facile. Una fotografia nitida ed un cast di buoni attori dalla ciancicante parlata gallese (stendiamo un velo pietoso sul ridicolo doppiaggio italiano simil-meridionale, da taluni perfino celebrato...); bella e toccante la tormentata storia d'amore tra il pastore Gruffydd (Walter Pidgeon) e la giovane Angharad (Maureen O'Hara). Straordinario Donald Crisp nei panni del padre-patriarca, gran lavoratore, ferrea dignità e carattere, pezzo d' onestuomo.

Sfida infernale (My Darling Clementine), 1946
Il più rognoso tra i critici cinematografici, il terribile Bosley Crawther, ebbe a dire a proposito di questa pellicola che "ogni scena è il prodotto di un occhio acuto e sensibile, un occhio che ha piena comprensione della bellezza che risiede nella gente rude di un mondo rude". Analisi perfetta che estenderei a buona parte del cinema di John Ford. Quanto alla magnifica interpretazione di Henry Fonda, non saprei davvero decidermi tra questo calmo e signorile Wyatt Earp e il colonnello Thursday di "Fort Apache"; ma perchè scegliere in fondo, un attore così merita ben più di una stella sulla Walk of Fame. Fantastico anche Victor Mature nei panni del tubercolotico Doc Holliday. Se andate cercando la vecchia Tombstone e la vera sfida all' O.K. Corral le trovate proprio qui, catturate in uno splendido bianco e nero dall'occhio acuto e sensibile del Guercio.

In nome di Dio (3 Godfathers), 1948
Ebbene sì, esiste pure un Ford minore, anche se tutti i suoi lavori sono interessanti nell'economia della sua vastissima produzione; questo 3 Godfathers è coetaneo al suo capolavoro Fort Apache, e vabbè non c'è infatti paragaone. Intriso di morale religiosa, questo western natalizio è però divertente. La cosa migliore resta infatti il ruolo assegnato al vecchio coriaceo John Wayne; qui indossa i panni di un bischerone semianalfabeta, goffo e giuggiolone.
C'è il "classico messicano" Arméndariz, e c'è il mastino Ward Bond nel ruolo di antagonista, uno dei tanti figuranti dello stock fordiano che amo particolarmente, ma qui è piuttosto imballato.

Il massacro di Fort Apache (Fort Apache), 1948
Il cinema di Ford è essenzialmente frontiera e geometria.
C'è l'epica, con la sua retorica marziale e il suo inconfondibile sapore di sangue ed avventura, e attorno a tutto questo gira il compasso di John Ford, regista amante del Classico, del romantico, abitudinario quanto a cast (vedi gli attori feticcio Wayne, Fonda, Bond, O'Brien), tutto concentrato nella storia che vuole raccontare, per cui la tecnica cinematografica è a servizio. Se volete dire al mondo che John Ford è un genio, ditelo piano, sussurratelo, non perchè non lo sia, ma semplicemente perchè l'inflazione attorno al termine "genio" oggi mette sotto l'occhio di bue i registi che sorprendono, scioccano, infrangono le regole. Lui, quanto a digressioni, si concede al massimo l'inserto di una pomposa danza di ufficiali sulle note della marcia di San Patrizio (con un Henry Fonda eccezionale ballerino!).
La Grandezza discreta di Ford; è facile “inventarsi” la genialità davanti alla sregolatezza, è più difficile ma più prezioso scovarla nella geometria più semplice.
Io amo John Ford. Il che non significa necessariamente nascondersi dietro ad un cespuglio e sparare a vista su quanti contraddicono la sua grandezza trionfalmente americana, squisitamente hollywoodiana. Amare John Ford è per me tornare al divano di una casa, accanto al mio vecchio, e scoprire con gioia che l'ennesimo western in onda "sulle private" è un Ford. Oggi so in anteprima cosa sto per vedere, allora no, allora era una scoperta del momento.
Io amo John Ford perchè ha portato a spasso la mia fantasia per un bel pezzo della mia vita, e sta continuando a farlo anche ora che mi spuntano i primi peli bianchi sulla barba.
Ora, tornando al film, considerate un attimo il rude John Wayne. Avete presente i suoi film, no? Generalmente, lui è il film, punto. La pellicola gli gira attorno.
E adesso guardatelo qui, in questo Fort Apache; come al solito onest'uomo, tutto d'un pezzo, impavido. Ok, ma non un purosangue lanciato a mille in una prateria, bensì un grosso cavallo domato e imbrigliato. Il suo capitano Yorke non disubbidisce mai, la sua energia eroica viene costantemente repressa dalla ferrea e cieca disciplina imposta dal colonnello Thursday, uno straordinario, abbottonato e altezzoso Henry Fonda.
Voglio dire: Ford in questo film è riuscito a maneggiare la dirompenza di Wayne, sellarlo come non mai, e l'effetto è grandioso. Avete un John Wayne di-ver-so, capito? Diverso dal solito cowboy.
Il prototipo di eroe western per eccellenza scombina i piani dei malvagi. Qui invece soggiace - per onore dell'arma - alle logiche assurde del suo superiore, le ingoia e le digerisce fino al punto di mitizzarlo dopo la morte.
Spendo un'ultima parola sui magnifici comprimari che fanno parte del cast; su tutti, Ward Bond, una faccia da vecchio puglie, un fisico da lottatore, due occhi bovini e quel felice binomio attoriale che unisce la prestanza fisica alla bontà di cuore, l'assoluta onestà al linguaggio schietto. Un po' come il Donald Crisp di "Com'era verde la mia valle". Di una paternità forte, cristallina, intimamente dolce.

I cavalieri del Nord Ovest (She Wore A Yellow Ribbon), 1949
L'amore che nutro verso i film di John Ford è vasto come la Monument Valley, sconfinato come gli orizzonti rosseggianti dove galoppa lontana una fila serrata di ombre, cappello svolazzante e sciabola sguainata. In questo luminescente She wore a yellow ribbon, secondo della Cavalry Trilogy, Ford porta la sua inarrivabile epica al traguardo del colore, negli sgargianti tramonti magici, surreali dietro al granitico vecchio John Wayne, in divisa blu e bretelle bianche, inginocchiato in un piccolo cimitero tra le mesas. Coi baffi grigi, la rughina che scende dalla fronte, gli occhi illanguiditi dall'età (in realtà invecchiato ad hoc per la pellicola), qui Duke impersona un capitano - cuor di leone, pasta d'uomo - a pochi giorni dalla pensione; il vecchio saggio e coraggioso, pronto a sacrificare sè stesso per la patria e i suoi ragazzi, che trova perfino la soluzione pacifica, con calma senile, ai giovani irruenti tamburi di guerra. A lui si accompagnano i soliti vecchi compagni di set, l'erculeo e bonario Victor MacLaglen, l'ex primastella George O'Brien, il giovanotto tempestoso John Agar e l'inguantato biondino Harry Carey jr. Il quadro si completa con l'espressiva ed energica Mildred Natwick e l'oca giuliva Joanne Dru.
Vorrei riguardare questi film centinaia e centinaia di volte, fino a impararli a memoria. L'ingresso trionfale di Ford nel mondo del colore è un'estasi visiva (a dire il vero c'era già arrivato con The 3 Godfathers, ma il dislivello tra le due opere è notevole), le sgroppate delle sue scuderie hanno scolpito la storia del western come forse ahimè i tendini di quei poveri, magnifici cavalli lanciati a razzo giù per i dirupi.

Rio Bravo (Rio Grande), 1950
Un po’ deludente l’ultimo capitolo della Trilogia della Cavalleria; per molti è il più maturo dei tre, per me è il più addomesticato e risulta piuttosto ingessato nella sua marzialità. Ci sarebbe pure l’ ingrediente interessante della famiglia provata dalla durezza dell’esercito, con una Maureen O’Hara simpatizzante confederata che insieme al granitico colonnello nordista John Wayne vigila sul figlio Claude Jarman, implume recluta; ma gli attriti si annacquano quasi subito nel sussulto da “massaia americana” della O’Hara.
Secondo me qui Ford ha avuto un piccolo cedimento, toccando il fondo poi con la commediola "Un uomo tranquillo", per riprendersi alla grande con The Searchers. Crisi di idee e – bisogna ammetterlo – un po’ di imbalsamazione retorica.

La carovana dei mormoni (Wagon Master), 1950
Western che scorre chiaro e leggero tra i contrafforti rocciosi del deserto americano al ritmo di chitarra, violini e gli inconfondibili coretti dei "Sons of the Pioneers". Non celebre, ma quantomeno conosciuto proprio per la sua solare semplicità e per l'assenza di divi, racconta in maniera esemplare il percorso di meticciamento dell'epos pionieristica, mettendo implicitamente alla berlina l'ideale di purezza delle origini; ciò che infatti inizia come un convoglio identitariamente compatto di uomini e donne dalla ferrea morale, si 'contamina' in itinere includendo saltimbanchi ubriaconi, accogliendo banditi, incontrando navajos. Oltre al tipico scenario di frontiera di Ford, ci sono qui tutti i suoi ingredienti preferiti: i balli folkloristici, i caratteristi che infondono la giusta dose di humour al film, le donne di forte personalità.

Sentieri selvaggi (The Searchers), 1956
Può un fordiano di ferro lasciarsi offuscare la vista dall'ipocrisia moralista antiwestern? Forse con gli anni mi sono rammollito, e cedo un po' anche io a quel filone di retorica che accusa certi film di razzismo nei confronti dei nativi americani.
E' per questo che non ho il coraggio di dare un 10 rotondo a questo meraviglioso The Searchers; perchè il fondo dell'anima mi attira verso quel sangue che grida dalla terra, seppure io detesti mortalmente la sterile falsa vuota retorica che bolla cataloga e trita libri, film, l'Arte in genere sventolando vessilli che non le appartengono. Ma la Storia non mente.
Povero John Ford, povero amato John Ford. Mi sento un po' traditore nei tuoi confronti. Ma anche tu, vecchio guercio irlandese, col tempo hai imbolsito non senza colpe le tue opere; le hai appesantite di un bianchismo che agli inizi era ben mascherato da quel piglio ribelle, irlandese, che come in "Ombre rosse" metteva in primo piano peccatori e prostitute, blandendo la falsa Morale americanotta.
Le storie di vendetta poi non le amo, non le ho mai amate; neanche opere stracelebrate come "Il conte di Montecristo" mi son mai andate a genio. La vendetta è un sentimento arido, brutto, disumano; come quel John Wayne ciondolante e rubizzo, stolido e glaciale, al quale è contrapposto un perfetto Jeffrey Hunter - una prova in stato di grazia, un personaggio azzeccatissimo più che un valido attore - dal cuore buono, sfortunato, giuggiolone, goffissimo.
Ebbene, tolti gli occhiali di questa pedante premessa, rimane la grandiosità di questo film.
Rimane il tramonto rosseggiante, un fuoco che accende la Monument Valley mentre la casa coloniale si prepara al massacro. Rimane l'ombra che scivola nel blu di una volta stellata, gli agguati, gli inseguimenti, i fuochi dei bivacchi. Un trionfo fotografico, un mondo spesso inquadrato dall'uscio di una porta (tipico di Ford) che si spalanca, sconfinato e gravido di promesse d'avventura.

Cavalcarono insieme (Two Rode Together), 1961
Il western di Ford che forse più di tutti gli altri si affranca dalla fastidiosa zanzara dell' occidentalismo bianco. Sarà anche meno avventuroso, manca di pathos, ma di certo è il più coraggioso e per certi versi liberatorio; in un paio di memorabili sequenze ravvicinate, Ford riesce a rovinare il valzer dell'etichetta, distruggere il carillon della retorica, fino a impiccare la logica buonista hollywoodiana.
Un gran bel duetto tra James Stewart, sceriffo lazzarone e decisamente antieroico, e un Richard Widmark certo meno cinico ma senza l'esigenza di eccedere nell'opposto, capitano un po' goffo e compagnone. Si instaura tra i due un rapporto "quasi amichevole", fuori dai soliti schemi, ben fotografato in singolari digressioni come la famosa chiacchierata sulla riva del fiume.
Tra gli ultimi lavori di Ford è quello che ho trovato più originale ed efficace, più dell' arcinoto "L'uomo che uccise Liberty Valance". Realistico perfino nonostante il ridicolo afro-comanche Woody Strode.

L'uomo che uccise Liberty Valance (The Man Who Shot Liberty Valance), 1962
Di certi registi si dice che non invecchino mai; di John Ford invece si può dire tranquillamente: beh, ecco uno che col tempo è serenamente invecchiato. Anzi, si è quasi asserragliato senza mai compiere un balzo evolutivo dal suo cinema, dimostrando ogni volta di più che per lui la settima arte era l'espressione del suo immaginario, del suo stile di vita, della sua morale. John Ford ha concesso nella sua filmografia pochissime fughe dal ranch delle sue idee; tutt'al più ha mostrato altri orizzonti, dalle verdi colline d' Irlanda alle tempeste della Polinesia, lasciando per un attimo canyons e cactus, ma ha tracciato in fondo sempre il medesimo cerchio.
L'uomo che uccise Liberty Valance si colloca nei primi anni '60, quando il cinema esplorava assatanato ogni anfratto dell'animo umano, e si scaldava nel ribollire politico e sociale di una nuova generazione. Marmoreo come una pietra tombale, è una delle innumerevoli twilight-zone del genere western (vi risparmio il "crepuscolare" stavolta). Decreta sì la vittoria della legge sulla pistola selvaggia, ma rimarcando il fatto che prima di arrivare a questa pacifica supremazia deve essere partito comunque il colpo giusto. Il magnifico James Stewart, procuratore legale in erba (e si noti: nonostante l'attore avesse abbondantemente superato la cinquantina...), grida al vecchio West come un profeta nel deserto la superiorità del tribunale alla dura legge della vendetta personale. Il coriaceo John Wayne, bolso e claudicante ma sempre vero duro della frontiera, lo prende in simpatia ma resta legato al suo cinturone. La bella di turno - Vera Miles - si dibatte tra l'amore tradizionale, virile e rassicurante di Wayne, e l'amore istruito e progressista di Stewart. La carriera politica del futuro senatore Stoddard deve il suo fulgore all'aurea di leggenda da cui nasce; quel colpo che stese il bandito Valance (Lee Marvin), di cui alla fine si svelerà confidenzialmente l'origine.
Su tutto, c'è da ricordare l'incendiario crollo psicologico di Wayne impazzito per amore, filmato da Ford con gran tensione drammatica. L'uomo tutto d'un pezzo che cade a pezzi è sempre una gran lezione di vita, in fondo.

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