New York (NY), 1935
Amore e guerra (Love and Death), 1975
Esilarante commedia in costume ambientata tra Russia e Francia durante le guerre napoleoniche. Ammicca tanto al demenziale quanto alla commedia raffinata; è forse il miglior contenitore di gag umoristiche del genio newyorkese.
Manhattan (Manhattan), 1979
Trovare un
vecchio amico di nome Ike con le sue paranoie e idiosincrasie filiformi,
il suo humour yiddish; questo per per me è tornare al Woody Allen dei tempi d'oro, un' esperienza
elettrizzante. E' riscoprire la magistrale sequenza, a livello di
inquadrature, luci ed ombre del dialogo amoroso al Planetarium. E'
rivivere - non semplicemente "riascoltare" - la Rapsodia in Blu di
George Gershwin, magicamente, epidermicamente legata alla Grande Mela.
E' assistere con magnifico sfinimento ai dialoghi cerebrali, caustici,
davanti al tavolino di un locale, negli interni di un loft, lungo le
strade sovrastate dagli imponenti grattacieli a specchio, bere con
avidità ogni singolo twist verbale di questo piccolo genio e dei suoi
gagliardissimi compagni di colloqui (la Streep, la Keaton, Michael
Murphy).
Nel celeberrimo incipit Allen incide sul marmo la sua innata vocazione metropolitana: "New York era la sua città, e lo sarebbe sempre stata".
Una città in bianco e nero che pulsa dei motivi di Gershwin, affatto
realistica ma anzi totalmente e magicamente reinterpretata dal cinema.
Broadway Danny Rose (Broadway Danny Rose), 1984
Se Woody Allen non avesse intercalato commediole easy come questa ai suoi grandi capolavori, non sarebbe mai divenuto così popolare.
Il personaggio di Danny Rose è la quintessenza del prototipo alleniano, sempre a gesticolare, balbettante, geniale, spiritoso. La cosa più bella è la corte dei miracoli che si porta appresso questo impresario teatrale fallito, felicemente radunata al Thanksgiving con teglie usa e getta di tacchino surgelato.
Broadway Danny Rose (Broadway Danny Rose), 1984
Se Woody Allen non avesse intercalato commediole easy come questa ai suoi grandi capolavori, non sarebbe mai divenuto così popolare.
Il personaggio di Danny Rose è la quintessenza del prototipo alleniano, sempre a gesticolare, balbettante, geniale, spiritoso. La cosa più bella è la corte dei miracoli che si porta appresso questo impresario teatrale fallito, felicemente radunata al Thanksgiving con teglie usa e getta di tacchino surgelato.
La Rosa Purpurea del Cairo (The Purple Rose of Cairo), 1985
Rivedo sempre volentieri uno degli Allen della "golden age", o meglio di
quella che io ritengo tale, ovvero dal '79 all' 89 (da Manhattan a Settembre). Questo Purple rose of Cairo è
un'operazione di metacinema riuscitissima, ambientato in due fascinose
epoche (la dura grande depressione contro la sognante belle époque prima
della Grande Guerra), pellicola che ammicca al romance con un fondo di
amarezza; la voglia di evasione dalla cruda realtà di una donna
decisamente svampita e ingenua (una magnifica Mia Farrow in una delle
sue interpretazioni più riuscite), infelicemente sposata con un
fannullone ubriacone (efficace Danny Aiello), prende sostanza in una
improbabile uscita di schermo di un eroe all'antica, in bianco e nero,
cavalleresco e un po' minchione (un Jeff Daniels coi fiocchi). Un trucco
che gioca pericolosamente con la suspension of disbelief dello
spettatore ma riesce alla perfezione aprendo di fatto una infinità di
situazioni divertenti; indimenticabili le sequenze che vedono impegnati
in dialoghi assurdi il cast del film in bianco e nero con gli spettatori
in sala.
Hannah e le sue sorelle (Hannah and Her Sisters), 1986
Forse il più maturo dei film di Allen, sicuramente tra i più intensi.
Alterna gag spumeggianti a piccole gemme di drammaticità, in un
equilibrio perfetto. La coralità del trio di sorelle garantisce tre
magnifiche sponde per esplorare vita coniugale, tradimenti e insuccessi;
ad esse si accompagnano la più riuscita interpretazione
dell'ipocondriaco Woody e la flemma britannica, con rari e contenuti
eccessi di temperamento, di un ottimo Michael Caine.
Soprattutto, qui straborda il genio dietro alla cinepresa. Le inquadrature si sono raffinate raggiungendo il vertiginoso grado "oltre la perfezione", superiore perfino al bianconero laccato di Manhattan, un po' grazie anche al tocco magico di un colore freddo e piovoso. Eppure, nonostante l'aura di perfezione (e chissà, forse proprio per questo!) continuo a preferirgli il più scanzonato Radio Days.
C'è una forza struggente negli standard suonati al piano dal vecchio genitore, un attempato Lloyd Nolan alla sua ultima interpretazione.
Soprattutto, qui straborda il genio dietro alla cinepresa. Le inquadrature si sono raffinate raggiungendo il vertiginoso grado "oltre la perfezione", superiore perfino al bianconero laccato di Manhattan, un po' grazie anche al tocco magico di un colore freddo e piovoso. Eppure, nonostante l'aura di perfezione (e chissà, forse proprio per questo!) continuo a preferirgli il più scanzonato Radio Days.
C'è una forza struggente negli standard suonati al piano dal vecchio genitore, un attempato Lloyd Nolan alla sua ultima interpretazione.
Radio Days (Radio Days), 1987
Non c'è niente da fare, quando sento quelle note di September song,
e la telecamera lascia sullo sfondo le onde scure della spiaggia e fa
una carrellata lungo i caseggiati rosso scuro sotto la pioggia, il mio
cuore si gonfia di meravigliosa malinconia. Questo è il film più bello,
dolce e poetico che io abbia mai visto, con una colonna sonora
immortale, perfetta elegia di un'epoca sognante.
I colori sgargianti di abiti, arredi, insegne e réclame, il calore di un focolare domestico nell'irresistibile humour di una strampalata famiglia ebrea, la formazione di un pel di carota dai tratti alleniani in un'America in canottiera, mentre un'altra America, in frac, si affaccia alla vertiginosa terrazza di una tarda bélle epoque in lenta marcescenza, col flute in mano e l'ermellino al collo. Quarta volta che lo vedo, quarto dieci e lode che gli dò con gioia e profonda gratitudine. My beloved.
I colori sgargianti di abiti, arredi, insegne e réclame, il calore di un focolare domestico nell'irresistibile humour di una strampalata famiglia ebrea, la formazione di un pel di carota dai tratti alleniani in un'America in canottiera, mentre un'altra America, in frac, si affaccia alla vertiginosa terrazza di una tarda bélle epoque in lenta marcescenza, col flute in mano e l'ermellino al collo. Quarta volta che lo vedo, quarto dieci e lode che gli dò con gioia e profonda gratitudine. My beloved.
Settembre (September), 1987
Un Allen autunnale, che sceglie una luce soffusa di intimità drammatica
mettendo da parte gli usuali toni della commedia nevrotica. Dialoghi e
sequenze come sempre impeccabili, qui c'è un gusto tutto particolare per
la costruzione circostanziata dell'ambiente, le inquadrature sofferenti
nel gioco degli sguardi e delle pose (c'è un film di Woody Allen in cui
l'attore maschio-alfa non tenga una mano in tasca e con l'altra
gesticoli?).
Mia Farrow è sempre lei, un'attrice che ha sempre timbrato più che bene il suo cartellino ma alla fine sembra non "spaccare" mai, belle intense le prove di Dianne Wiest e Denholm Elliott.
Mia Farrow è sempre lei, un'attrice che ha sempre timbrato più che bene il suo cartellino ma alla fine sembra non "spaccare" mai, belle intense le prove di Dianne Wiest e Denholm Elliott.
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