mercoledì 7 settembre 2016

Gosford Park (2001) di Robert Altman

Trama
Inghilterra, anni ’30. Un gruppo di nobili, ciascuno con la propria servitù al seguito, raggiunge la tenuta dei McCordle (i coniugi sono Michael Gambon e Kristin Scott-Thomas, la figlia è Camilla Rutherford) per una battuta di caccia. C’è l’anziana e snob Constance, contessa di Trenhtam (Maggie Smith) accompagnata dalla cameriera personale Mary (Kelly MacDonald), ci sono gli Stockbridge (Charles Dance e Geraldine Somerville) con il valletto Robert Parks (Clive Owen), i Meredith (Tom Hollander e Natasha Wightman), il produttore hollywoodiano Morris Weissman (Bob Balaban) assieme al celebre attore Ivor Novello (Jeremy Northam) e l’ambiguo valletto Henry (Ryan Philippe), i Nesbitt (James Wilby e Claudie Blakley) a cui si aggiungono per ultimi (con imperdonato ritardo) i dandy scavezzacollo Rupert (Laurence Fox) e Trent (Jeremy Blond). All’allestimento della cena presiede il maggiordomo Jennings (Alan Bates) in cooperazione con l’algida governante Mrs. Wilson (Helen Mirren), la capocuoca Mrs. Croft (Eileen Atkins) e una squadra di domestici tra i quali la navigata Elsie (Emily Watson). Dopo la caccia al fagiano dell’indomani, la forzata convivenza rende sempre più evidente che sono in parecchi a intrattenere rapporti tesi col bizzoso e bizzarro sir William McCordle, finché lo stesso non viene trovato assassinato nella biblioteca. Accorrerà lo sherlockiano ispettore Thompson (Stephen Fry) per una classica indagine in stile mystery inglese, a lato della quale emergeranno alcuni fantasmi del passato.

Contenuti del film
Il film prende a prestito le atmosfere de La Regola del Gioco (1939), raffinata commedia di Jean Renoir in perfetto equilibrio tra il frufru e il più cupo dramma esistenziale in cui aristocratici e servi tessono le loro trame notturne, e le tinte del giallo classico d’indagine alla Poirot. Al centro vi è la contrapposizione o meglio l' antitesi tra due classi sociali; da un lato la nobiltà inglese con la sua esasperante etichetta e le sue più o meno segrete piccinerie, dall’altro l’underground dei domestici con i loro intrighi, gossip e tragedie celate. La prima sequenza ci mostra l’elegante e altezzosa contessa Constance Trentham dalla bocca stretta e lo sguardo da civetta incartapecorita che noncurante del temporale fa scendere dalla macchina la mite servetta Mary per farsi aiutare a svitare un tappo; la ragazza non si scompone affatto, rimarcando l’abitudine al comando, e traffica con il termos mentre la pioggia le infradicia il vestito. E’ interessante il rapporto tra le due donne, le quali pur non mettendo mai in discussione la distanza sociale che le divide, trovano alcuni spazi di intimità nel pettegolezzo. Allo stesso modo per tutta la pellicola lo spettatore è in grado di cogliere varie intersezioni extra professionali tra servi e padroni, facendo crollare in più occasioni la corazza di inappuntabilità dei più devoti al cerimoniale (si vedano la sbronza dell’impeccabile Jennings o il crollo psicologico finale di Mrs. Wilson), se non perfino far deflagrare tutta una architettura di menzogne con l’inequivocabile gaffe rivelatoria della cameriera Elsie.
Un’ altra questione interessante è l’annosa contrapposizione tra USA e Inghilterra. A rappresentare il paese a stelle e strisce è il piccolo Morris Weissman (nome fittizio), produttore ebreo della serie dedicata all’investigatore cinese Charlie Chan (franchise reale); Morris è un ometto pacato, contradditorio (non partecipa alla caccia, si dichiara vegetariano ma indossa un collo di pelliccia) con qualche peccatuccio nascosto (una relazione omosessuale con il valletto Henry), ma la sua vera “macchia” è  soprattutto quella di essere esponente di un mondo estremamente inviso a certa nobiltà schizzinosa, il cinema. Memorabile la frecciata di Constance durante la cena, che di fronte al rifiuto del produttore di svelare la trama dell’ultimo film per non guastare la visione, risponde velenosa: “Non si preoccupi, nessuno qui guarderà quel film”. Nei momenti concitati post omicidio, con gli ospiti impegnati negli interrogatori con l’ispettore Thompson, Weissman rimarrà impassibilmente attaccato al telefono per una lunga interurbana mediante la quale disporrà le sue idee per il suo nuovo progetto. Parallelamente, il valletto Henry smaschererà la sua reale identità (ottenendo il disprezzo dei servi, che lo credevano dei loro), confessando la sua missione voyeuristica. Al distacco sprezzante della upper class britannica, i mestieranti americani rispondono con il distacco cinico dell’intento documentaristico. Come è ben noto, il regista è ben lungi dall’essere un fiero rappresentante di quell’americanità tronfia, che anzi ha sempre scudisciato volentieri, così come non è mai stato l’alfiere di Hollywood dalla quale si è sempre tenuto distante; in questo film sembra bearsi nello schiaffeggiare per benino entrambe le sponde dell’Atlantico.

Il cast
Il cast è per buona parte rigorosamente inglese. Al livello più alto troviamo le genuine interpretazioni di Michael Gambon e Maggie Smith, che andrebbero ascoltati preferibilmente in lingua originale per non perdere il loro magnifico accento british. La prova di Ryan Philippe ricorda molto vagamente l’irraggiungibile Bogarde de Il Servo di Joseph Losey. Il goffo Stephen Fry risulta simpatico ma è anche abbastanza stereotipico, mentre il personaggio di Bob Balaban ha un brio con tratti di originalità. Intensa l’interpretazione canora delle belle composizioni di Ivor Novello (attore realmente esistito, recitò per Hitchcock in The Lodger) da parte di Jeremy Northam.

Curiosità
Dopo la cerimonia degli Oscar 2002 l’unico raggiante del gruppo era lo scrittore Julian Fellowes (futuro ideatore della fortunata serie tv Downtown Abbey), vincitore della statuetta per la miglior sceneggiatura originale; Bob Altman disse a troupe e cast di seguirlo nella sua villa in cui si teneva un party per perdenti, dove divertirsi e ubriacarsi liberamente. In questo delizioso siparietto d’ ironia c’è tutta la leggerezza irriverente di Altman nei confronti del sistema hollywoodiano. 

pubblicato su l'Armadillo Furioso

venerdì 19 agosto 2016

GUERRA E PACE di Lev N. Tolstoj

Duecentotrentadue giorni di lettura, al passo di un maratoneta zoppicante, sono la misura del mio lungo e straordinario viaggio tra le pagine di Tolstoj. Sì, è un ritmo di lettura lentissimo e non ne vado particolarmente fiero; tuttavia, se non altro, se ne deduce che anche a bassissimi giri si può scalare una montagna. E poi, in ogni viaggio, più lenti si va più particolari si possono cogliere.
Di romanzoni ne ho letti diversi, nella mia vita; i volumi più poderosi di Dostoevskij, Joyce, Dickens, Hugo. Questo Guerra e Pace potrebbe anche superarli tutti, non ho fatto un preciso conteggio delle pagine, ad ogni modo posso ben dire che è uno dei romanzoni più titanici della mia vita, nonché in assoluto nel panorama della grande Letteratura.
Partiamo da un pregiudizio diffuso: a proposito dei classici russi, si dice comunemente che Dostoevskij sia intenso e cerebrale, mentre Tolstoj sia prolisso e moralista. E’ una visione assai parziale e ingiusta; io amo il torvo Fëdor e le sue discese a capofitto nei mali dell’animo, ma Tolstoj non è assolutamente da meno. Certo Lev è più cavalleresco e marziale, amante delle digressioni piene e a tratti ampollose come Hugo, ma la sua penna è affilata e precisa nell’intagliare tanto i campi di battaglia quanto la profondità caratteriale dei personaggi, tanto le dissertazioni storiche e filosofiche quanto i dialoghi più emozionanti e coinvolgenti.
Lev Nikolàevič Tolstòj è uno che la guerra l’ha conosciuta bene. Per quattro anni, tra il Caucaso e la Crimea, ha combattuto e visto morire maturando infine la convinzione che la guerra non avesse affatto quell’aura epica di cui si disquisiva nei salotti e che la carriera militare non facesse per lui, scegliendo perciò - a imperituro beneficio di tanti suoi lettori - l’arte dello scrivere. La sua esperienza personale è un bagaglio importante per la ricostruzione della vita quotidiana di fanti e ufficiali, come traspare evidentemente nelle efficaci descrizioni delle retrovie russe; ma il bagaglio fondamentale, quello che segna nel profondo la grandezza di Guerra e Pace, è (come sempre) la cultura. Per fare un bel reportage basta l’occhio acuto e la penna facile, per scrivere un’opera così imponente serve molto di più; occorre una visione storica profonda e articolata, sorretta da pile di libri, fondata sulle biblioteche e sugli archivi più che sul campo di battaglia, sullo studio più che sulla sciabola.   
Guerra e Pace si sviluppa essenzialmente attraverso due binari più o meno paralleli; Tolstoj alterna finzione e Storia in un confine non sempre netto (perdonate il paragone forse irriverente, ma a me qui viene in mente James Ellroy) incrociandole in più di qualche occasione. Da un lato ci racconta le vicende personali di un gruppo di famiglie russe prima, durante e dopo l’avanzata napoleonica del 1812, dall’altro ci accompagna negli eventi storici in senso stretto, dando voce non di rado a autentici personaggi storici come lo stesso Napoleone, l’imperatore Alessandro o il generale Kutuzov, ricreando con eccezionale plasticità le battaglie di Austerlitz e Borodino, l’incendio di Mosca, le articolate strategie miliari ora di un fronte ora dell’altro.
L’attenzione del lettore richiede uno sforzo in più (cosa comune nei grandi Classici, sforzo di gran beneficio aggiungo), la capacità di accettare nella sua interezza questa narrazione binomiale lasciandosi guidare dalla penna sicura di Tolstoj. Come non si può scindere la Storia dalle storie, così non è ammissibile “saltare le parti” in cui dobbiamo mettere momentaneamente in stand-by le palpitanti vicende di Pierre, Andrej o Natal’ja (che indubbiamente arrivano più dirette al cuore) per stagnare tra le manovre dello scacchiere bellico. Questo è per antonomasia il romanzo storico. Vietato dunque eludere l’aggettivo.
Ma cosa è la storia per Tolstoj? Vi dico subito che nel caso abbiate una macchina del tempo e vorreste andare a chiederglielo di persona, beh, sappiate che non ne uscirete vivi. Vi tratterrebbe per giorni e per notti discettando ogni minuzia; no, la sintesi non è certamente tra i doni di questo straordinario scrittore. Ebbene proprio per questa sua smisurata attitudine alla disquisizione (eccovi un mio neologismo fresco fresco: disquisitudine), il barbutissimo Lev potrebbe smuovere anche in voi, come è accaduto per me, i meccanismi più arrugginiti del ragionamento. Tra le tante lampadine che mi ha acceso in testa, segnalo questa; spesso siamo abituati a bignamizzare gli eventi storici, per cui “Napoleone ha condotto la campagna di Russia”, “Napoleone ha vinto qua, Napoleone ha perso là”. Ecco, nell’approssimazione uno può perdere anche tutta la vita, diceva un altro grande russo, Pavel Florenskij; accettiamo solo informazioni semplici e ridotte (e quale cura allora, in questo senso, la lettura di grandi Classici come questo!). Tolstoj non accetta scorciatoie, perché tra il potere e la volontà delle masse c’è una cascata di fattori. Trovo magnifico l’esempio della battaglia di Borodino, che prima di leggere questo romanzo ritenevo semplicemente la battaglia decisiva, che diede la svolta a favore dei russi. Nel romanzo non appare mai chiaro l’esito della battaglia; del resto come capire a quel tempo chi aveva vinto sul campo di battaglia? Non ci avevo mai riflettuto, ma è verissimo. Solo l’esito finale di una guerra disegna, attraverso una rilettura spesso eroica e chiaramente poco oggettiva, quelli che furono gli eventi cruciali.
Guardiamo inoltre alla figura del generale Kutuzov, davvero emblematica. Prima di leggere il romanzo, mi aspettavo un eroe. Sapevo che il villain era chiaramente Napoleone e leggendo attendevo trepidante lo svelarsi del suo reale antagonista russo. L’imperatore Alessandro, con tutta la sua aura dorata e il suo impeto giovanile, visto come un angelo bianco a cavallo attraverso gli occhi di Nikolaj Rostov (uno dei protagonisti, personaggio non propriamente simpatico), non sembra mai ambire al titolo. Non resta che riporre ogni fiducia sull’attempato, grasso e mezzo cieco generale Kutuzov, vecchia volpe che sa mettere tutti al suo posto; attendista fino allo sfinimento, certo concorre alla tattica che portò di fatto a una sorta di autodistruzione francese, ma vuoi la sua andatura sciancata, vuoi la sua poca epicità, vuoi che mezza Russia non lo sopportava, insomma non può certo indossare il mantello del supereroe. E allora chi è l’eroe? Il popolo russo? Sì e no, anche no. La provvidenza manzoniana che ha cambiato latitudine? Sì e no. C’è una forza che determina la Storia, un accumulo di fattori che nessuno storico, scienziato, teologo, filosofo potrà mai tradurre fino in fondo. Forse ci voleva un romanziere…
Una forza che si riesce a cogliere solo attraverso il Romanzo? Sarebbe pazzesco. Ma non lo escluderei.
La Storia ha forti limiti, la Storia si legge. Come un libro. E chi la scrive, ha letto a sua volta. Tutto si interpreta, anche senza necessariamente prendere una parte; oggi mi sento un po’ più rinfrancato nel mio sconfinato amore verso la finzione, l romanzi, i racconti, le poesie, i film. E quelli che leggono “solo i saggi perché parlano di cose vere” mi sembrano un po’ come quegli stuccatori dell’efficacissimo paragone di Tolstoj i quali, essendo stati incaricati di stuccare gli interni di una Chiesa, prendono a stuccare qualsiasi cosa, finestre e fregi compresi, compiaciuti dell’assoluto sovrano biancore. Tutto è vanità. Perfino lo stucco.
Un ultimo sguardo ora lo dedico al cast di questa storia. Perdonate il termine cinematografico, ma davvero leggendo le loro vicende mi andavo proiettando un vero e proprio kolossal in testa (senza aver ancora visto nessuno dei film che ne sono stati tratti, puntualizzo). Non c’è dubbio che il personaggio chiave sia quel Pierre Bezuchov - con tanti chili di Tolstoj medesimo addosso – un po’ goffo, a volte pedante, di una intelligenza curiosa e dal buon cuore e che la reginetta dell’Oblast’ sia la giovane e (inizialmente) frivola Natal’ja. Ma l’intera galleria di personaggi è straordinaria in ogni suo nobile o mužik, dalle immancabili regine del salotto ai vecchi tirchi e livorosi come il magnifico principe Nikolaj Bolkonskij (sarà un caso, ma a me questi vegliardi rimangono sempre un po’ nel cuore – vedi il vecchio taccagno della Casa desolata), dalle piccole petulanti principessine bacchettone come Marija a quelle intriganti e libertine come la fascinosa Hélène. Tutti questi personaggi cambiano durante il corso della narrazione; gli eventi stravolgono le loro vite, li trascinano raminghi attraverso Mosca deserta, sotto i colpi di cannone o le brucianti ferite dell’amore, seppellendone più d’uno (George R. R. Martin e il suo Trono di Spade avrà pure imparato da qualcuno) e portando nascituri.
Lasciatevi trasportare nel cuore tumultuoso dell’ottocento europeo. Di quando la Russia non poteva non dirsi europea, tant’è che i ranghi più nobili parlavano spesso in francese e di questo se ne accorgerà bene il lettore che non ha la fortuna di conoscere quella magnifica lingua, essendo costretto a saltare alle note con una certa frequenza. Di una Europa che andava formandosi bagnando la terra col sangue di moltitudini. Realmente, come dice il poeta Handke, è difficile cantare un epos di Pace essendo la guerra tristemente più “fotogenica”; ma proprio questa difficoltà ottiene alla lunga il risultato ancor più bello, almeno per come ci è riuscito il nostro Leone Tolstoi (adoro le italianizzazioni, sono così d’antan), il quale proprio nelle parentesi di Pace ha scolpito le più indimenticabili pagine di umanità attraverso i suoi personaggi.

martedì 28 giugno 2016

La donna che visse due volte (1958) di A. Hitchcock

Il senso di vertigine è il perno attorno al quale ruota il romanzo poliziesco D’entre les morts (1954) del sodalizio Boileau-Narcejac, adottato ben presto come soggetto da Alfred Hitchcock per il suo Vertigo; secondo Truffaut si trattò di un’opera di “sartoria” degli scrittori francesi i quali, speranzosi di una trasposizione ad opera del maestro londinese, ne mutuarono ad hoc stile e atmosfere. All’adattamento dello script lavorarono Alec Coppel in prima battura, poi Samuel Taylor con Maxwell Anderson (non accreditato).
La locandina del film nel graphic design di Saul Bass
La vertigine è la causa del trauma irrisolto del protagonista John Ferguson detto Scottie (un ottimo James Stewart), poliziotto che nel corso di un inseguimento rocambolesco sopra i tetti di San Francisco finisce appeso a una grondaia, restando paralizzato dalla paura, mentre il collega nel tentativo di salvarlo scivola fatalmente nel vuoto. E la stessa vertigine verrà “illustrata” con geniale semplicità da Hitchcock mediante l’effetto ottico straniante dello zoom in avanti coordinato con la carrellata all’indietro della cinepresa.
Il tragico epilogo dell’episodio in sequenza d’apertura rimane impresso nella mente di Ferguson al punto di impedirgli perfino di salire su una scaletta da cucina, come avviene nell’atelier dell’amica innamorata Midge. La disegnatrice di capi d'intimo femminile interpretata da Barbara Bel Geddes, attrice dalla bellezza pulita completamente “sottratta” al cinema da una onorata carriera televisiva (fu uno dei main characters nella longeva soap Dallas) risulta da subito impegnata nel tentativo di recuperare psicologicamente l’amico come pure in quello più complicato di riaccendere la vecchia fiamma che un tempo li aveva fugacemente uniti. Rappresentando l’approdo rassicurante, sempre “a portata di mano” ma del tutto incapace di esercitare il magnetismo necessario, la povera dolce Midge appollaiata dietro il suo tavolo di lavoro coi suoi occhiali rotondi blonde tortoise (i dettagli di stile in Hitchcock sono sempre impeccabili) non sembra mai in grado di rompere la cortina di amichevole estraneità che la tiene distante da Scottie; compirà il madornale errore tipicamente femminile di provare a sostituirsi in modo goffo alla donna amata, irritando Ferguson e umiliando sé stessa. Non riuscirà infine a sottrarlo al suo stato catatonico quando irromperà il dramma centrale, uscendo di scena con una mesta camminata terminata in dissolvenza lungo il corridoio della clinica.
Barbara Bel Geddes
Come nella più classica detective-story, il film presenta come scintilla del plot una investigazione su commissione. Il vecchio amico Gavin Elster (Tom Helmore), divenuto un importante armatore, chiede a Scottie di sorvegliare a distanza la moglie in quanto presenta strani momenti di trance e occulte connessioni con il passato attraverso la vicenda di un’antenata suicida, ritratta in una tela davanti alla quale essa passa lunghi momenti in trasognata contemplazione. La imperscrutabile Madeleine Elster è interpretata da Kim Novak in una versione cool blonde che rivela la fissazione di Hitchcock per le chiome paglierine; sebbene non riesca a eguagliare il fascino sofisticato di Grace Kelly in Rear Window, la Novak gioca con il suo sex appeal inafferrabile, creando un personaggio intriso di mistero e sottile erotismo. 
Soggettiva dall'auto di Ferguson
Assistiamo ai lunghi pedinamenti di Ferguson con una soggettiva da dentro l’abitacolo della sua Desoto coupé bianca, sulle tracce di una elegante Jaguar verde bottiglia; di tanto in tanto, un controcampo cattura la mimica accigliata di Stewart con i suoi occhi azzurri esaltati dal Technicolor. Stretta in un tailleur grigio perla e acconciata con grazia la Novak scivola tra i chiassosi mazzi di fiori di un negozio (esempio della sgargiante fotografia tutta accesi contrasti di Robert Burks) e tra i sentieri di un cimitero di periferia, appare dalle imposte spalancate di un piccolo albergo o siede come ipnotizzata sul divanetto di un museo; in ogni sua posa appare, in un crescendo di malia e disperata solitudine, come un magnifico fantasma agli occhi del sempre più disorientato Ferguson.
James Stewart
L’effetto ipnotizzante, raffigurato dall’inconfondibile graphic design di Saul Bass con l’iconica spirale, cattura anche lo spettatore; la posizione voyeuristica dell’investigatore si interrompe con il salvataggio dalle acque della San Francisco Bay, dove la donna si è gettata in uno dei suoi momenti di dissociazione. Da quel momento comincia a intrecciarsi la relazione tra Scottie e Madeleine, con l’impronta tipicamente salvifica e protettiva dell’uomo rassicurante e la donna fragile. L’adulterio, seppure non venga chiaramente mostrato con la libertà espressiva di un cinema ancora a venire, usa in realtà pochi paraventi moralistici ed espone al pubblico di fine anni cinquanta un lungo e languido bacio clandestino, oltre che una ammiccante e disinvolta frequentazione dell’appartamento di lui da parte di una donna sposata.  
Kim Novak
Nell’atto secondo del film avviene la celeberrima scena del campanile. Stando a quanto dichiarato a Peter Bogdanovich nel suo splendido libro di interviste Chi ha fatto quel film? (ed. Fandango), Hitchcock scelse di ambientare Vertigo a San Francisco proprio per la necessità di trovare un campanile, individuando in San Juan Bautista la giusta location. La reale altezza della torre campanaria deluse però il regista il quale decise di farla “ritoccare” in studio per ospitare la scena clou. Giunti alla missione, Scottie e Madeleine ne visitano le vestigia ripercorrendo ricordi e misteriose reminiscenze del passato; ad un certo punto lei sfugge all’amorevole controllo del suo amante, dirigendosi rapidamente verso il campanile. Ferguson, trafelato, cerca di raggiungerla ma si blocca a metà scala per via della vertigine; da una finestra assisterà impotente al volo della donna che va a schiantarsi sul tetto sottostante.
A questo punto ha inizio il “terzo atto” del film, quello che porta alla conclusione e allo svelamento di ogni mistero. Interessante notare come Hitchcock scelga di rendere ben presto partecipe lo spettatore di ogni retroscena per via della sua nota teoria sulla suspense: per Hitchcock se una bomba viene piazzata sotto un tavolino, ma nessuno sa della sua esistenza fino a quando essa non scoppia, lo spettatore ne rimarrà scioccato per poco, poi in breve l’effetto sorpresa svanirà; se invece lo stesso viene messo a conoscenza della furtiva installazione dell’esplosivo, resterà in uno stato di tensione costante per tutto il tempo fino al momento dell’esplosione. Così nella storia, poco dopo l’occasionale incontro di Ferguson con Judy – sempre la Novak impersona quella che si ritiene una perfetta sosia di Madeleine, col carattere e l’outfit in completa antitesi – Hitchcock ci mostra con un flashback come sono andate realmente le cose all’episodio del campanile in modo tale da instillarci la domanda: quando riuscirà il povero Ferguson a smascherare l’imbroglio?
Da quel momento in poi si assiste a una costante e certosina ri-costruzione dell’immagine dell’amata da parte di un ossessionato Ferguson, con la sempre più debole resistenza dell’ormai innamorata Judy, fino al ritrovamento dell’oggetto/indizio che apre all’emersione del diabolico piano. Il finale è un crescendo di tensione emotiva, sottolineata con perfetta affinità dalle musiche di Bernard Herrmann, in cui trova spazio una impressionante rappresentazione dell’uomo accecato dalla furia vendicatrice, una rabbia montante, una salita inesorabile per le scale della tragedia fino al grottesco contrappasso segnato dalla singolare, quasi importuna apparizione sulla soglia di una inquietante ombra, rivelatasi poi tutt’altro che un oscuro fantasma del passato. Ma è troppo tardi, Judy spaventata a morte ha già deciso di seguire il tragico destino della sua sosia.