martedì 28 giugno 2016

La donna che visse due volte (1958) di A. Hitchcock

Il senso di vertigine è il perno attorno al quale ruota il romanzo poliziesco D’entre les morts (1954) del sodalizio Boileau-Narcejac, adottato ben presto come soggetto da Alfred Hitchcock per il suo Vertigo; secondo Truffaut si trattò di un’opera di “sartoria” degli scrittori francesi i quali, speranzosi di una trasposizione ad opera del maestro londinese, ne mutuarono ad hoc stile e atmosfere. All’adattamento dello script lavorarono Alec Coppel in prima battura, poi Samuel Taylor con Maxwell Anderson (non accreditato).
La locandina del film nel graphic design di Saul Bass
La vertigine è la causa del trauma irrisolto del protagonista John Ferguson detto Scottie (un ottimo James Stewart), poliziotto che nel corso di un inseguimento rocambolesco sopra i tetti di San Francisco finisce appeso a una grondaia, restando paralizzato dalla paura, mentre il collega nel tentativo di salvarlo scivola fatalmente nel vuoto. E la stessa vertigine verrà “illustrata” con geniale semplicità da Hitchcock mediante l’effetto ottico straniante dello zoom in avanti coordinato con la carrellata all’indietro della cinepresa.
Il tragico epilogo dell’episodio in sequenza d’apertura rimane impresso nella mente di Ferguson al punto di impedirgli perfino di salire su una scaletta da cucina, come avviene nell’atelier dell’amica innamorata Midge. La disegnatrice di capi d'intimo femminile interpretata da Barbara Bel Geddes, attrice dalla bellezza pulita completamente “sottratta” al cinema da una onorata carriera televisiva (fu uno dei main characters nella longeva soap Dallas) risulta da subito impegnata nel tentativo di recuperare psicologicamente l’amico come pure in quello più complicato di riaccendere la vecchia fiamma che un tempo li aveva fugacemente uniti. Rappresentando l’approdo rassicurante, sempre “a portata di mano” ma del tutto incapace di esercitare il magnetismo necessario, la povera dolce Midge appollaiata dietro il suo tavolo di lavoro coi suoi occhiali rotondi blonde tortoise (i dettagli di stile in Hitchcock sono sempre impeccabili) non sembra mai in grado di rompere la cortina di amichevole estraneità che la tiene distante da Scottie; compirà il madornale errore tipicamente femminile di provare a sostituirsi in modo goffo alla donna amata, irritando Ferguson e umiliando sé stessa. Non riuscirà infine a sottrarlo al suo stato catatonico quando irromperà il dramma centrale, uscendo di scena con una mesta camminata terminata in dissolvenza lungo il corridoio della clinica.
Barbara Bel Geddes
Come nella più classica detective-story, il film presenta come scintilla del plot una investigazione su commissione. Il vecchio amico Gavin Elster (Tom Helmore), divenuto un importante armatore, chiede a Scottie di sorvegliare a distanza la moglie in quanto presenta strani momenti di trance e occulte connessioni con il passato attraverso la vicenda di un’antenata suicida, ritratta in una tela davanti alla quale essa passa lunghi momenti in trasognata contemplazione. La imperscrutabile Madeleine Elster è interpretata da Kim Novak in una versione cool blonde che rivela la fissazione di Hitchcock per le chiome paglierine; sebbene non riesca a eguagliare il fascino sofisticato di Grace Kelly in Rear Window, la Novak gioca con il suo sex appeal inafferrabile, creando un personaggio intriso di mistero e sottile erotismo. 
Soggettiva dall'auto di Ferguson
Assistiamo ai lunghi pedinamenti di Ferguson con una soggettiva da dentro l’abitacolo della sua Desoto coupé bianca, sulle tracce di una elegante Jaguar verde bottiglia; di tanto in tanto, un controcampo cattura la mimica accigliata di Stewart con i suoi occhi azzurri esaltati dal Technicolor. Stretta in un tailleur grigio perla e acconciata con grazia la Novak scivola tra i chiassosi mazzi di fiori di un negozio (esempio della sgargiante fotografia tutta accesi contrasti di Robert Burks) e tra i sentieri di un cimitero di periferia, appare dalle imposte spalancate di un piccolo albergo o siede come ipnotizzata sul divanetto di un museo; in ogni sua posa appare, in un crescendo di malia e disperata solitudine, come un magnifico fantasma agli occhi del sempre più disorientato Ferguson.
James Stewart
L’effetto ipnotizzante, raffigurato dall’inconfondibile graphic design di Saul Bass con l’iconica spirale, cattura anche lo spettatore; la posizione voyeuristica dell’investigatore si interrompe con il salvataggio dalle acque della San Francisco Bay, dove la donna si è gettata in uno dei suoi momenti di dissociazione. Da quel momento comincia a intrecciarsi la relazione tra Scottie e Madeleine, con l’impronta tipicamente salvifica e protettiva dell’uomo rassicurante e la donna fragile. L’adulterio, seppure non venga chiaramente mostrato con la libertà espressiva di un cinema ancora a venire, usa in realtà pochi paraventi moralistici ed espone al pubblico di fine anni cinquanta un lungo e languido bacio clandestino, oltre che una ammiccante e disinvolta frequentazione dell’appartamento di lui da parte di una donna sposata.  
Kim Novak
Nell’atto secondo del film avviene la celeberrima scena del campanile. Stando a quanto dichiarato a Peter Bogdanovich nel suo splendido libro di interviste Chi ha fatto quel film? (ed. Fandango), Hitchcock scelse di ambientare Vertigo a San Francisco proprio per la necessità di trovare un campanile, individuando in San Juan Bautista la giusta location. La reale altezza della torre campanaria deluse però il regista il quale decise di farla “ritoccare” in studio per ospitare la scena clou. Giunti alla missione, Scottie e Madeleine ne visitano le vestigia ripercorrendo ricordi e misteriose reminiscenze del passato; ad un certo punto lei sfugge all’amorevole controllo del suo amante, dirigendosi rapidamente verso il campanile. Ferguson, trafelato, cerca di raggiungerla ma si blocca a metà scala per via della vertigine; da una finestra assisterà impotente al volo della donna che va a schiantarsi sul tetto sottostante.
A questo punto ha inizio il “terzo atto” del film, quello che porta alla conclusione e allo svelamento di ogni mistero. Interessante notare come Hitchcock scelga di rendere ben presto partecipe lo spettatore di ogni retroscena per via della sua nota teoria sulla suspense: per Hitchcock se una bomba viene piazzata sotto un tavolino, ma nessuno sa della sua esistenza fino a quando essa non scoppia, lo spettatore ne rimarrà scioccato per poco, poi in breve l’effetto sorpresa svanirà; se invece lo stesso viene messo a conoscenza della furtiva installazione dell’esplosivo, resterà in uno stato di tensione costante per tutto il tempo fino al momento dell’esplosione. Così nella storia, poco dopo l’occasionale incontro di Ferguson con Judy – sempre la Novak impersona quella che si ritiene una perfetta sosia di Madeleine, col carattere e l’outfit in completa antitesi – Hitchcock ci mostra con un flashback come sono andate realmente le cose all’episodio del campanile in modo tale da instillarci la domanda: quando riuscirà il povero Ferguson a smascherare l’imbroglio?
Da quel momento in poi si assiste a una costante e certosina ri-costruzione dell’immagine dell’amata da parte di un ossessionato Ferguson, con la sempre più debole resistenza dell’ormai innamorata Judy, fino al ritrovamento dell’oggetto/indizio che apre all’emersione del diabolico piano. Il finale è un crescendo di tensione emotiva, sottolineata con perfetta affinità dalle musiche di Bernard Herrmann, in cui trova spazio una impressionante rappresentazione dell’uomo accecato dalla furia vendicatrice, una rabbia montante, una salita inesorabile per le scale della tragedia fino al grottesco contrappasso segnato dalla singolare, quasi importuna apparizione sulla soglia di una inquietante ombra, rivelatasi poi tutt’altro che un oscuro fantasma del passato. Ma è troppo tardi, Judy spaventata a morte ha già deciso di seguire il tragico destino della sua sosia.


Nessun commento:

Posta un commento