martedì 22 settembre 2015

Top 100 FILM da vedere (dal n. 85 al n. 83)



85. L’uomo dal braccio d’oro (1955) di Otto Preminger

Un Sinatra pazzesco nei panni di Frank Machine, braccio d'oro del tavolo da gioco e tossicodipendente, è il fulcro di questo bellissimo e altamente drammatico film di Preminger. Non è un duro, non è un eroe, è un perdente, le prende e sbrocca per l'astinenza; sembra incredibile come 'The Voice' abbia accettato di 'sporcare' la sua lustra immagine di seduttore di casalinghe. Memorabile l'interpretazione della moglie gelosa e problematica da parte di Eleanor Parker, attrice tra le migliori della ricca fucina hollywoodiana anni '50.

84. Scarpette rosse (1948) di M. Powell & E. Pressburger

Credo sia il miglior film della coppia Powell Pressburger, almeno da un punto di vista squisitamente critico (io ho amato di più Duello a Berlino, ma è una questione di gusto personale). La grandezza di questa pellicola, che si basa innanzitutto su una deliziosa sceneggiatura originale scritta da Emeric Pressburger, regge su alcuni pilastri: innanzitutto le prove monstre di Anton Wallbrook, cinico impresario del balletto, Marius Goring, giovane compositore, e la splendida Moira Shearer, ballerina piuttosto morbida, dalla chioma leonina di un rosso scozzese; la scenografia di Heckroth e Lawson, accoppiata ricorrente nella filmografia dei due registi inglesi, che allestisce un estroso balletto (impeccabilmente coreografato da Robert Helpmann, che ha anche un ruolo giullaresco) e regala consueti fondali sognanti; dulcis in fundo, siamo al top del lavoro di Jack Cardiff, onorato direttore della fotografia premiato anzitempo con l'Oscar per il precedente ottimo - ma inferiore - Narciso nero, che qui cattura la magia della Cote d'Azur nei suoi colori sgargianti da cartolina d'epoca, i suoi azzurri profondi, e sfoggia quel rosso scarlatto che esplode nella vorticosa performance della Shearer (e non solo nelle famose scarpette).
Una favola che si tinge di rosso, sospesa tra la passione del ballo, l'amore e la morte, una indimenticabile parabola sulla danza classica e il suo mondo a volte crudele.

83. Hong Kong Express (1994) di Wong Kar-Wai

Due storie per un film: la prima ammicca un po' al mystery novecentesco con uno scenario alla Blade Runner, la seconda però è vero il pezzo da novanta.
Un poliziotto che consola gli oggetti, parlando a peluches, stracci e saponette, per il quale lo spandimento è il pianto a dirotto di una casa. Una ragazza dolce e un po' pazzerella, che come un folletto si diverte a modificare segretamente piccoli dettagli dell'appartamento di lui, aggiungendo pesci all'acquario o cambiando etichette allo scatolame. Lei partecipa a pezzi di vita del passato di lui, prendendo il posto di una donna che non c'è più, in un buffo gioco d'amore, così lontano dai soliti riti della seduzione.
Un perfetto momento di cinema: lui riceve per mano di lei la lettera della sua ex; lei lo invita a leggere, ma lui dice: "Prima bevo il mio caffè". Sorseggia al ralenty, sotto lo sguardo trasognato di lei, mentre in sottofondo parte la magica intro di Dreams dei Cranberries.
Wong Kar-Wai è stato per me una scoperta tardiva ma eccezionale. Trovo una densità tale nella sua arte malinconica, nei suoi mélo così perfettamente in equilibrio tra oriente ed occidente, in cui anche il telefono di una doccia ha la melodia poetica di una pioggia d'agosto.

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