mercoledì 7 ottobre 2015

Top 100 FILM da vedere (dal n. 61 al n. 59)



61. Una pallottola per Roy (1941) di R. Walsh

Un gangster movie d'alta scuola, sebbene risulti riduttivo relegare rigidamente al "genere" questa pellicola dagli intensi risvolti umani, condotta con incredibile mestiere da Raoul Walsh, regista essenzialmente "narrativo" che ama il retrogusto amaro nelle storie. In un soggetto di paternità nobilissima (il grande John Huston e W. Riley Burnett, quello di "Giungla d'asfalto" e "Piccolo Cesare") Walsh tira fuori dal mazzo il primo ruolo di protagonista per Humphrey Bogart, vero e proprio asso pigliatutto. Film di questo calibro andrebbero rispolverati, rivisti, studiati per la loro capacità di affascinare senza bisogno di strafare, senza il facile stratagemma dell'eccesso. Protagonisti dinamici, dialoghi serrati a mezzo busto, pochi i primi piani. Il viso delicato - ma mai evanescente - della Lupino ben si attaglia al tratto rude e i modi spicci di Bogart. La loro storia d'amore cresce con naturalezza e non appare affatto scontata. Bella particina per l'inglese Henry Travers, colonnello delle vecchie commedie hollywoodiane, celebre per il ruolo dell'angelo di seconda classe ne "La vita è meravigliosa" di Capra. La sequenza finale dell'inseguimento e dell'assedio è a dir poco spettacolare.

60. Grand Budapest Hotel (2014) di W. Anderson

Delizioso, fiabesco e stavolta realmente appassionante. C'è quel tocco frivolo e bizzarro tipico di Anderson che si accompagna ad una reinvenzione storica intelligente e spiritosa; poi, come sempre, una magica magnifica fiera dell'oggetto d'antan, del dettaglio retrò, oltre che una spumeggiante galleria di caricature, dal garzoncello indiano al carcerato tatuato fino alla dolce ragazzina con la voglia sulla guancia a forma di Messico. La fantasia vive ancora e sta sulla sedia di questo regista, rilassatevi e sgranate bene gli occhi.

59. Un gelido inverno (2010) di D. Granik
 

Un gioiello di cupa bellezza. L'atmosfera fredda, da lontana desolata boscosa provincia americana è resa molto bene, le interpretazioni sono eccellenti - soprattutto Jennifer Lawrence, ad un livello di gran lunga superiore a quello dei ruoli successivi - ma qui l'essenza di (quasi) capolavoro appartiene alla nitida e feroce visione artistica della Granik, donna di cinema di lungo corso qui promossa alla regia. Trasformazione molto, molto riuscita. A tanto cinema "di periferia" aggiunge un certo disincanto, niente strilli niente risse da saloon; due bellissimi bambini impegnati nei loro giochi a intervallare la durezza del dramma, testimonianza efficace dell'infanzia che sa sempre trovare l'uscita di sicurezza della fantasia; un finale tragico su toni tranquilli, grottesco, senza morali di scorta, molto poco hollywoodiano. Il Sundance c'è ancora.

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