giovedì 8 ottobre 2015

Top 100 FILM da vedere (dal n. 58 al n. 56)



58. Le notti di Cabiria (1957) di F. Fellini


Maria Ceccarelli, conosciuta come Cabiria, è una prostituta che vive nelle borgate di Roma; donna tenace, linguacciuta e dotata di un grande senso di dignità, eppure fragile e segretamente romantica, ci racconta i volti della Roma anni '50, tra via Veneto coi suoi vip e i suoi esotici night-club, e le squallide periferie dove gli ultimi vivono sotto terra, nelle umide grotte. Stupendo carosello notturno, con il superdivo Amedeo Nazzari a rappresentare l'accidiosa inquietudine di chi vive nel lusso, accompagnato alla raffinata e sensuale Dorian Gray emblema degli sbalzi d'umore derivanti dalla cronica depressione. La piccola e tosta Cabiria si intrufola per una notte nella loro reciproca distruzione, e dal buco della serratura assiste alla proiezione di un film drammatico sentimentale; come set, le mura domestiche. Ne uscirà di soppiatto, perdendosi tra notte ed alba nella brulla periferia, la terra che nasconde come una povera madre i suoi figli in grembo; e alla fine, tra le illusioni da varietà, sarà proprio questo popolo di prostitute, magnaccia e suonatori di mambo ad emergere nella vita di Cabiria come l'unica flebile luce in un mondo di tenebra e inganni. Un atto d'accusa che Fellini non risparmia nemmeno all'italica devozione mariana, cogliendo la tragicomicità della deriva superstiziosa di certi pellegrinaggi. Immortale particina per Aldo Silvani, l'ipnotizzatore; dolce e materna, ma senza eccessi, la giunonica Franca Marzi nel ruolo dell'amica Wanda.

57. I migliori anni della nostra vita (1946) di W. Wyler


Un film eccezionale, questo dramma di Wyler. Racconta del ritorno degli eroi, in particolare di tre militari sopravvissuti alla Grande Guerra sul fronte del Pacifico, in una cittadina della periferia americana. Qui riallacceranno i fili della loro vita interrotta, quella che si erano lasciati alle spalle dopo l'arruolamento; luoghi ed affetti immutati o cambiati, anche deteriorati o spenti, figli cresciuti. L'interpretazione più toccante è quella riservata ad Harold Russell, attore non professionista e vero reduce di guerra, del quale noi italiani non possiamo non riconoscere subito l'inconfondibile, roco e romantico doppiaggio di Ferruccio Amendola. Egli è Homer, un marinaio che torna con due uncini al posto delle mani, e per quanto si sforzi di apparire normale nelle piccole cose quotidiane, soffre perchè non può accarezzare la sua amata... Di gran spicco, a mio avviso, la prova delle attrici; un ruolo che richiede allo spettatore d'oggi lo sforzo minimo di immedesimazione nello spirito "americanamente virile" di quegli anni, tenendo per un attimo da parte il patrimonio di emancipazione femminile addivenire. La donna che scarrozza il marito a bere per i locali e lo mette a letto ubriaco sfatto, la figliola che studia con profitto amministrazione domestica; l'unico spirito libero risulta quello di Virginia Mayo, personaggio ovviamente negativo e adulterino, splendida nella sua figura da principessa del night. Ma al di là di queste doverose puntualizzazioni 'sociologiche', l'austera dolcezza di Myrna Loy rimane intatta, così come la tenerezza giovanile di Teresa Wright o l'intensa determinazione nuziale di Cathy O'Donnell, che intende sposare l'uomo che ama anche se mutilato. Da brividi le sequenze finali; a parte il solito ed inevitabile lieto fine romanzato, è impressionante la scelta di Wyler di tenere la telecamera impietosamente fissa sulle mani degli sposi, in una cerimonia dove le mani hanno un ruolo predominante (lo scambio degli anelli, il prete che chiede di prendere la mano dello sposo per il giuramento). E' un pezzo da antologia del cinema, se non da antologia del sentimento, quello vero, che si fa spazio anche nel doloroso e nel grottesco.

56. Tempi moderni (1936) di C. Chaplin

Vietato "immaginarsi" questo film. Non pensate di conoscere in anteprima "Tempi moderni" solo perchè aveve visto da qualche parte la gag degli ingranaggi o della catena di montaggio, perchè il mondo di Charlot in questo magnifico film non si limita solo alla fabbrica, che certo ben rappresenta una società dove l'uomo viene inghiottito dai suoi stessi ingranaggi; è tutta la città ad essere presa nel vortice, dai suoi locali alla strada, dai negozi al porto. Non c'è spazio per chi sbaglia, per chi rallenta, per chi non cede passivamente ad una vita assorbita e annullata; quel "sorridi" di Chaplin nel commovente finale non è faciloneria, è arte di vivere.
Molto brava la Goddard che non apprezzai particolarmente ne Il Grande Dittatore, probabilmente qui si trova in un ruolo più consono. La canzone Smile è magnifica, io ne ebbi l'imprinting conoscendola nella stupenda versione jazz di Dexter Gordon, tuttora uno dei miei pezzi preferiti; scoprire che è stata composta da Chaplin è stata una sorpresa incredibile.

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