venerdì 13 marzo 2015

Siamo tutti ridicoli, non abbiamo scampo. L'idiota di Dostoevskij

Immaginate di entrare nel classico, sontuoso salotto frequentato dal cosiddetto "gran mondo". Scorgete in disparte un biondino insignificante, sguardo un po' ebete: non se lo fila nessuno. Impietosito, qualcuno gli si avvicina con l'intento di coinvolgerlo in una conversazione; questi comincia letteralmente a esondare, come se prima si stesse trattenendo, si anima, diventa febbrile e gesticolante mentre intorno calano gelo e imbarazzo; nella foga dell'agitazione, urta e manda in frantumi un grosso vaso cinese.
Damy i gospoda, ecco a voi il principe Lev Nikolaevic Myškin, il "cavaliere povero" da molti bollato come un perfetto "idiota", impareggiabile dispensatore di scandali. Nessun filtro tra pensiero e parola, nessun pregiudizio nei confronti di alcuno, neanche dei peggiori fedifraghi, bugiardi, cialtroni, ruffiani e violenti. Dostoevskij ha voluto dar vita ad un uomo perfettamente "buono", di una bontà consapevolmente ingenua perchè spoglia di qualsiasi etichetta o formalità, indifesa perchè pervasa dalla convinzione che nessuno in fondo è malvagio. Un essere che non conosce competizione nè ambizione, che per mitezza risulta simile all' Agnello di Dio. Anche se solo in parte.
Ecco, su questa banalizzazione vorrei soffermarmi brevissimamente, dicendo con sicurezza che no, Myškin non rappresenta una sorta di "secondo Cristo in terra", come frettolosamente si può supporre. Gesù Cristo ha una personalità, un carisma, una umanità estranei al buon principe Myskin. Il Cristo si addossa le sofferenze per salvare, Myskin patisce perchè non conosce altra reazione che l'accettazione. D'altro canto il Cristo non si fa problemi a dare un paio di salubri scudisciate ai mercanti del tempio, mentre Myskin non lo farebbe mai, perchè lui tollera praticamente tutto. Dissipata la noiosa nebbiolina di una banale cristologizzazione dell'Idiota, andiamo avanti.
Myškin è letterariamente paragonabile ad una miccia sfrigolante in un palazzo. Tutti guardano questa miccia trattenendo il respiro, temendo l'inevitabile esplodere dello scandalo ma allo stesso tempo sono incapaci di prevenirlo. E' senza dubbio la generalessa Epančina il personaggio che riassume meglio questa scandalofobica, nobile Russia inconcludente del XIX secolo. Donna energica ma eternamente indecisa, tenera chioccia e matrona irascibile, ora ama ora disprezza il principe idiota con egual passione, in un esilarante tiramolla in cui si trascina dietro figlie, cognati e tutta la gran coorte assortita di questo romanzo. Una pletora interminabile di lacchè, studenti malaticci, nichilisti, mantenute, giornalisti, militari, principi, rissaioli, ubriaconi - perchè un romanzo affollato come questo, vi assicuro, è davvero ostico trovarlo. In questo aspetto dell' incessante radunarsi di un popolo "diversamente peccatore" attorno al principe possiamo riconoscere una efficace rievocazione della figura di Gesù. Tutti si trovano a ronzare attorno all'imprevedibile buon epilettico e alla sua dolce, paziente favella, suggendo (e contestando) le sue stille di povera saggezza.
La mia massima preferita è senza dubbio quel salace "Siamo tutti ridicoli, non abbiamo scampo" pronunciato nel salotto dove avviene l'epic fail descritta all'inizio. Ma quella che è rimasta più impressa nella memoria collettiva è l' iconica "La bellezza salverà il mondo"; nel dialogo ove essa è contenuta, viene immediatamente opinato dal giovane "eterno morente" Ippolit: "Sì, ma quale bellezza?". Si aprono suggestive interpretazioni; trascendendo da quelle più ovvie e direttamente legate al testo, ovvero la bellezza dei personaggi principali femminili - la bellezza di Nastassja Filippovna, amata dal principe per pura pietà come la peccatrice perdonata del Vangelo, o quella della lunatica Aglaja, che suscita un timore reverenziale - vi è ad esempio la bellezza rappresentata dall'iconografia russa ortodossa, e la nota religiosità di Dostoevskij (un fervente anti-cattolico, va ricordato) ha ovviamente aperto la strada all'appropriazione teologica di questo felice motto.
Dire che la bellezza popola questo romanzo può essere una frasetta ad effetto, ma sarebbe del tutto insincera. E' la meschinità la grande protagonista. Sebbene va detto come in letteratura a volte la meschinità riesca a sovrapporsi magicamente alla bellezza, in un gioco di prestigio che solo i grandi scrittori sanno fare, perchè i personaggi più bassi, quando sono percettibilmente "amati" dalla penna di chi li crea, non possono che risultare di una singolare bellezza. Tale è il caso di quel magnifico bugiardo, adorabile fanfarone del generale Ivolgin, totalmente incapace di dire la verità, incapace di farsi rispettare in famiglia, di avere una dignità. Perfino ladro. Eppure noi, come il suo giovane figliolo Kolja, ci troviamo al suo fianco, mai sazi delle due panzane e delle sue millantate conoscenze che toccano l'assurdo, l'impossibile storico. Così giungiamo a dire che sì, per quanto mi riguarda lui può essere stato davvero paggio di Napoleone, anche quando tutto dice il contrario; se avete visto lo scoppiettante Big Fish di Burton, capite di cosa sto parlando.
Allo stesso modo risulta istintivo disprezzare untuosi personaggi come Lebedev, adulatori fasulli, camaleonti pronti a darti ragione su tutto salvo poi pugnalarti alle spalle (fatto curioso, Dostoevskij fa intessere una gioviale amicizia tra questi due opposti), così come il vile Gavrila Ardalionovic, aka Ganja, che fa il leone in casa ma è servile nei confronti di chi conta.
In definitiva ogni personaggio, come sempre accade nei buoni romanzi, è una finestra verso un tema; ho già accennato del malaticcio Ippolit, ebbene la sua "spiegazione necessaria" è una delle digressioni che più mi sono rimaste impresse. In particolare serberò sempre ricordo di questa frase: "Chiunque attacchi la carità individuale, attacca anche la natura umana e mostra disprezzo per la dignità personale". Ah, come mi piacciono queste parole, come le urlerei nell'orecchio di tutti quei bravi saputi cittadini modello che contestano la libertà di elemosina. Chiusa parentesi sociale.
E poi il doppio, tema già affrontato nel claustrofobico romanzo "Il sosia", che vede in Rogožin lo specchio deformante del buon idiota Myškin, il suo dark side violento, ateo e passionale.
C'è molto altro, ovviamente; ma mi fermo qua.
Concedetevi anche voi questa incredibile passeggiata nel giardino del bene e del male, tra amori, litigi e pettegolezzi, tra fede, filosofia e politica salottiera, in cui Dostoevskij ci fa da guida con la sua penna affilata, mostrandoci il ventre molle della Russia ottocentesca.

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