venerdì 15 maggio 2015

Inferno, Canto XVII. Hell of a charter


Dante fa galoppare un po' la fantasia a briglie sciolte e si inventa di sana pianta la creatura mostruosa di turno, senza attingere stavolta – se non blandamente – alla mitologia classica.
Gerione ha il volto d'uom giusto, il corpo serpentino dal manto cangiante, due zampe villose come un leone e la coda di scorpione. Silenzioso, si aggrappa al baratro lasciando fluttuare nel vuoto la lunga coda; mentre i nostri esploratori gli si fanno più vicini, Virgilio suggerisce a Dante di impiegare bene il suo tempo (Acciò che tutta piena esperienza d'esto giron porti) mentre egli va a conferire con il bizzarro tassinaro dell'oltretomba, indicandogli un gruppetto di dannati seduti sul sabbione. Del tipo: "Tesoro, intanto che la mamma paga, vai a giocare con quei bambini sulla sabbia". Gli dà però un tempo (Li tuoi ragionamenti sian là corti), in quanto la trattazione per ottenere un passaggio in groppa (sui suoi òmeri forti) non si prevede lunga.
Questi miseri dannati piangono (Per li occhi fora scoppiava loro duolo) cercando di alleviare il dolore delle braci ardenti con le mani, come fanno i cani con la zampa sul muso per scacciare pulci, mosche e tafani. Dante non riconosce nessuno dalla fisionomia (alterata dalle ustioni), ma nota che portano al collo delle borse con uno stemma (avea certo colore e certo segno). La borsa al collo li identifica come usurai, il cui attaccamento al denaro è ancora sensibile nel modo morboso con cui la tengono ancora d'occhio (e quindi par che 'l loro occhio si pasca).
Il primo stemma che Dante riconosce è quello degli strozzini fiorentini Gianfigliazzi (leone azzurro in campo d'oro), il secondo è quello degli Obriachi (oca bianca in campo rosso) mentre l'ultimo appartiene ai padovani Scrovegni (scrofa azzurra su campo bianco) il cui rappresentante ultraterreno (si tratta probabilmente di Rinaldo degli Scrovegni) avvia una breve geremiade. Dopo aver augurato pari dannazione al concittadino Vitaliano del Dente, politico che fu probabilmente finanziere di famiglia, Rinaldo riferisce che i suoi compagni di pena fiorentini spesse fiate gli 'ntronan li orecchi, ovvero con le loro continue grida lo assordano, spargendo la loro maledizione sul cavaliere che recherà la tasca coi tre becchi, cioè i tre caproni simbolo dei Buiamonte (il maschio della capra viene detto anche becco). Di Giovanni Buiamonte de' Becchi si pensava che fosse persona onorata e degna del cavalierato da poco ricevuto; in breve fu invece processato per bancarotta fraudolenta e fuggì da Firenze; un plot abbastanza comune, insomma, ma meglio non dire "all'italiana", se no Magris bacchetta. Infine lo Scrovegni, cercando una chiosa al suo breve show, ci aggiunge pure una boccaccia (distorse la bocca e di fuor trasse la lingua).
Dante se ne torna da Virgilio e lo trova già seduto sulla groppa del
fiero animale; riecco il tema ricorrente dell'incoraggiamento del mantoano al pavido Dante: "Or sie forte e ardito", incita il primo mentre l'altro triema tutto ma cerca di nascondere la paura (vergogna mi fè le sue minacce, che innanzi a buon segnor fa servo forte). Vorrebbe che Virgilio lo abbracciasse a mo' di cintura, ma gli manca il coraggio di ammetterlo; allora Virgilio, telepatico come sempre, lo anticipa (con le braccia m'avvinse e mi sostenne) invitando l'aerotaxi Gerione ad andare piano, scendendo con ampi cauti giri per non far l'effetto "montagna russa in picchiata" (lo scender sia poco).
Segue un simpatico quadretto in cui il poeta dipinge la sua fifa di volare, perfino superiore a quando Fetonte abbandonò li freni (Fetonte voleva fare il figo col carro del Sole, ma gli sfuggirono le redini e incendiò il cielo desertificando perfino la Libia, 'sto cojone) o a quando il povero Icaro sentì squagliarsi le ali sulla schiena mentre il padre sbracciandosi da terra gli gridava che stava sbagliando strada (Mala via tieni!). Dante sente le urla dei dannati sottostanti e il fragore del rosso Flegetonte che si getta a cascata nell'abisso (e il suo fifometro sale). Come il falcone ritorna al falconiere con ampi giri, quasi disdegnoso di atterrare, Gerione plana sul fondo dell'abisso per lasciare i suoi passeggeri, per poi riprendere il volo come una freccia scoccata dall'arco (e si dileguò come da corda cocca).

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