lunedì 4 settembre 2017

Review: The Hairy Ape

The Hairy Ape The Hairy Ape by Eugene O'Neill
My rating: 4 of 5 stars

Non sono mai riuscito a placare la mia sete di teatro e me ne rammarico non poco. Andare a teatro è anche una esperienza fisica, quindi assolutamente non paragonabile all'andare al cinema (che è facilmente sostituibile con le visioni home video); nessuna scappatoia ci viene dal teatro filmato il quale oltre a non avere logicamente una produzione sufficiente manca totalmente di sensorialità, altera completamente l'acustica diretta, sa irrimediabilmente di finto (fatta eccezione per le standup comedy, da sempre molto più televisive). Orbene, se lo spettatore non va al teatro, sia quantomeno il teatro ad andare verso il lettore: vorrei cominciare a leggere il teatro partendo da Eugene O'Neill, uno dei più illustri drammaturghi americani.
Tutto il teatro americano moderno mi incuriosisce particolarmente in quanto esso è stato una delle fonti primarie a cui hanno attinto gli sceneggiatori della mia Hollywood preferita, quella della golden age tra gli anni '30 e '40. Da qualcuno bisogna pur iniziare e O'Neill mi è sembrato il nome più logico. Nella sua pagina Gutenberg si trovano quattro plays (quanto mi piace la parola inglese; anche il francese pièce non mi dispiace, mentre l'italiano "opera teatrale" mi suona piuttosto ordinario) più un atto unico incorporato in una antologia. Ho deciso di iniziare la mia "lettura teatrale" da The Hairy Ape (in italiano conosciuto come La Scimmia Villana), scritto nel 1922. Già dal primo impatto si capisce che molta parte del testo è scritta in uno slang gustosissimo (ma direi abbastanza intuitivo per chi ha inglese upper intermediate), tutto da leggere a voce alta.
Sì, la lettura di una play teatrale deve per forza avvenire a voce alta. E' la minima concessione che si possa fare a un testo che non ha senso di esistere se non viene declamato. L'immaginazione può essere un discreto teatro alternativo, facendo partire il classico gioco mentale del dare un volto ai protagonisti senza alcun criterio temporale; così io ho potuto immaginare Yank con le fattezze di Tom Hardy, Paddy con il faccione di Anthony Hopkins, Long con il viso affilato di John Carradine, una diafana Mildred con il volto di una giovane Shelley Duvall. Ah, la zia brontolona aveva la faccia di Elsa Lanchester, la tata transfuga in Mary Poppins!
La scena si apre nella sala macchine di una nave, dove i fuochisti si stanno prendendo una pausa dal nutrire la rossa focosa fornace (fiery furnace). Hanno già messo mano alle birre e dato fiato alle canzoni marinaresche quando il grosso energumeno che tutti conoscono come Yank blocca la cagnara perchè lui deve pensare. E per farlo, ci spiega in più occasioni O'Neill, deve prendere proprio la posizione della celebre statua di Rodin. Il protagonista ci viene subito presentato come un pezzo d'uomo, la faccia sempre sporca di carbone, irascibile e totalmente privo di istruzione e buone maniere. Il suo parlare è colorito, zeppo di intercalari e di epiteti che affibbia ai suoi compari (lousy boob, yellow, old harp, bum...); parallelamente, l'anemica Mildred accompagnata da una cinica zia ci viene presentata come una ventenne snella, delicata, dal bel faccino pallido che malcela una sprezzante superiorità (disdainful superiority, espressione perfetta!). Mildred è la figlia di un ricco magnate dell'acciaio e sta compiendo una specie di praticantato sociale andando a curiosare tra gli emarginati, per conoscere le loro condizioni di vita - o più semplicemente per provare, come acutamente osserva l'acida ma perspicace zia, dei fremiti morbosi (morbid thrills). Fattasi accompagnare da un gruppo di ingegneri, la giovane entra in sala macchine proprio mentre Yank sciorina il meglio della sua scurrilità; sul filo del mancamento, la giovane fugge lasciando il suo bel commentino, un giudizio pesante come una pietra: Oh, the filthy beast! che giunge al povero Yank come un pugno allo stomaco.
Interessante come in realtà non sia originariamente hairy ape (scimmione capelluto) l'epiteto che diventerà poi il casus belli di una rappresentazione della lotta di classe; infatti l'espressione eponima sarà coniata dall'anziano compagno fuochista Paddy, il quale commentando l'accaduto dirà al furibondo Yank che la ragazza "era come se avesse visto una grossa scimmia capelluta fuggita dallo zoo". Come il mantice sul fuoco, anche i commenti e le battute salaci degli altri alimentano la rabbia il quale giura vendetta per l'affronto subito. C'è poi chi come l'altro collega Long vorrebbe dare la giusta dimensione alla causa, che non è affatto una questione privata ma una questione politica e di classe, giacchè Mildred altri non è se non una rappresentante di quei porci capitalisti (them lazy, bloated swine). Yank, solo con il suo furore e senza mai poter incontrare la diretta responsabile girerà a vuoto in questa sua chimera fino alla sua grottesca fine; qualcuno lo canzonò dicendo che in realtà si trattava di amore a prima vista, ma lui ebbe a precisare: "Love, hell! Hate, dat's what. I've fallen in hate, get me?"

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