lunedì 11 aprile 2016

Il fiume rosso (1948) di Howard Hawks

Red River, 1948 (USA)
di: Howard Hawks
con: John Wayne, Montgomery Clift, Joanne Dru, Walter Brennan, John Ireland.


C’è un pregiudizio da sfatare in premessa; una visione contrappuntistica grossolana di passato e presente cinematografico sentenzia che un tempo la distinzione tra hero e villain fosse nitida e marcata, mentre oggi questo confine si è fatto labile. Chi sostiene questo deve vedere ancora molto cinema in bianco e nero; quantomeno non ha mai fatto la conoscenza del Tom Dunson di John Wayne, rude ranchero e autoritario capo mandriano.
Ma partiamo con ordine… o quasi. I tempi di questo magnifico Red River, mastodontica produzione dello stesso regista Howard Hawks, seppure precisi come ogni buon classico hollywoodiano impone, segnano un’apertura singolare; ci viene raccontata una storia partendo dal finale di un’altra vecchia storia. Il film apre infatti sulla mesta chiosa della storia d’amore tra il coriaceo Dunson (Wayne) e la bella Fen (Coleen Gray), scelta sofferta ma irremovibile da parte dell’uomo tutto d’un pezzo che prefigura la durezza della vita da cow-boy. Assistiamo così allo sciogliersi degli ultimi residui di tenerezza di un uomo destinato a farsi più duro delle corna di un bufalo; a garantire la prossimità di un minimo calore umano rimane l’amico Groot (Walter Brennan), il tipico personaggio buffo e rassicurante che smussa gli angoli e stempera le tensioni.
Dunson insieme al fido Groot, radunati un po’ di solidi mandriani e raccolto un orfanello sperduto di nome Matt (Mickey Kuhn, giovanetto alquanto inespressivo che qualcuno ricorderà come il figlio di Ashley e Melania in Via col vento) accumula in diversi anni la sua fortuna in Texas ingrassando diecimila capi di bestiame, ora pronti dopo la Guerra di Secessione per la vendita al mercato. Per portare questa marea mugghiante di carne dovrà passare il tortuoso Red River che segna il confine nordorientale del Texas e raggiungere il più vicino mercato conosciuto nel Missouri. Qui sta il primo elemento portante del racconto; la cieca determinazione dell’ingrigito Dunson si fonda sulle sue personali conoscenze, non accetta pareri contrari e non riconosce cambiamenti di programma. Oltre il Red River c’è il Missouri e nient’altro che il Missouri, tutte le voci sulla nascita di nuovi mercati sono chiacchere senza senso. Nessuno si sogna di mettere in discussione la sua autorità tranne l’ormai cresciuto Matt, un meraviglioso Montgomery Clift, che matura una autodeterminazione sofferta, opponendo al granitico patrigno una posata ma tenace resilienza.
Matt intuisce il cambiamento della Storia – la nuova ferrovia che passa per Abilene, di cui corrono le voci – e guida l’ammutinamento dei mandriani ai danni del suo mentore, ormai in preda a una insonne alienazione e a un giustizialismo efferato. C’è un evidente richiamo allo splendido “Mutiny on the Bounty” (da noi passato come “La tragedia del Bounty”) del 1935 per la regia di Frank Lloyd, dove i panni del villain venivano indossati da un memorabile Charles Laughton.
John Wayne fa emergere qui il suo talento di attore. Non è scontato affermarlo, dal momento che ha spesso imposto semplicemente la sua fisicità da divo; pare che il grande John Ford, visionando questa pellicola, abbia affermato a denti stretti “Non sapevo che questo gran figlio di p… sapesse anche recitare”. Il suo viso è un concentrato di tensione magmatica, una maschera di rabbia e autorità. Spara a sangue freddo su chi lo tradisce, seppellisce e fa piantare la croce mentre recita la Bibbia.
Montgomery Clift assorbe nei suoi dolci tratti tutta l’ostilità di Wayne. Come un figlio (figliastro, poco importa) che vive il sovraccarico della tensione paterna, incassa e accumula dentro. I suoi occhi sono i pozzi neri dell’angoscia vibrante, si legge dentro la paura dello spettro, il peso della minaccia di vendetta “Ti troverò dovunque tu sia e ti ucciderò”. La sua autodeterminazione è in cantiere durante tutto il film, destinata ad esplodere solo dopo aver raggiunto il punto più basso dell’umiliazione nel finale.
I film di bivacchi e mandriani rappresentavano di per sé l’alveo eletto per una storia maschile al cento per cento. C’è una virilità ostentata e compiaciuta, una marginalità del ruolo delle donne accentuata dal contesto ma pure in linea con la visione dell’epoca della brava massaia americana. La cerbiatta Fen si stringe all’inizio al rude Dunson, ma è troppo debole per far parte di questa storia; simile il destino della più tosta Tess, interpretata da una convincente Joanne Dru, ma in questo caso i contorni del personaggio hanno alcuni elementi di maggior interesse. Tess fa parte di una carovana di giocatori e donne di malaffare, ma non si lascia guardare dal giovane Matt come una donna facile, lasciando l’impronta della sua mano sulle guance del cow-boy durante un classico assedio indiano ai carri in cerchio. Non disdegna tuttavia di raggiungerlo durante il suo turno di guardia notturno, in una bellissima sequenza di nebbia e angoscia, per consumare un amore “non convenzionale” con bella disinvoltura. Non temerà di mettere in gioco il suo corpo per salvare l’amato in un ambiguo dialogo con l’iracondo Dunson, sulle tracce degli ammutinati. E infine si frapporrà nella scazzottata finale – in cui la tensione padre-figlio viene forse troppo frettolosamente slavata per esigenze da happy ending – con fierezza femminina, uscendo di scena con una buffa sequenza di allontanamento di spalle, della serie “ma in fondo che me ne frega, ma vedetevela voi”.
La regia di Howard Hawks si inserisce nel solco del grande cinema classico, sebbene il suo western d’esordio rappresenti in un certo senso una ventata di novità rispetto ai canoni del genere. Dietro alla magniloquenza solare delle grandi scene di mandria, c’è un sottobosco notturno e intimistico alla linearità narrativa che cattura in modo eccezionale il cambiamento dei protagonisti con il procedere della storia. Alcune sequenze sono magistrali, come la citata scena di guardia in un bosco avvolto da una insolita nebbia (insolita almeno per un western a quei paralleli) che esalta in maniera sublime il crescendo di tensione; il senso di circospezione, il timore dell’agguato si sciolgono poi nell’abbraccio di una donna, la schiena adagiata su un’umida roccia nera.

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