16. Il profeta (2009) di Jacques Audiard

Eccezionale. Una storia dura di
carcere, corruzione e ineluttabilità dell’azione criminosa raccontata con
splendida rarefazione da Audiard, sublimata dall’interpretazione di Tahar
Rahim. Il giovane arabo Malik viene cooptato dalla mafia corsa capeggiata da
César Luciani (un magnifico Niels Arestrup, colto in un florilegio di primi
piani pensosi, dove campeggiano i solchi rugosi e il bianco ingiallito della
sua chioma arruffata); dal primo omicidio commissionato nascerà la storia di
formazione malavitosa del giovane, attraverso varie relazioni con i gruppi
etnici presenti dentro e fuori dalla prigione. Oltre al ritmo serrato, Audiard
ci regala la dimensione onirica delle visioni del protagonista, con un equilibrio
e una armonia tali da non tradire in minima parte il crudo realismo della
pellicola. Alcune sequenze restano scolpite dentro, come la prima uscita in
permesso dalla detenzione, una mattina ancora buia al primo canto degli
uccelli, una boccata d’aria fresca che riesce perfino a riempire i polmoni
dello spettatore.
15. La finestra sul cortile (1954) di Alfred Hitchcock

Che cosa fa di 'Rear Window' un
capolavoro? Innanzitutto direi il topòs del cortile, perlustrato nella sua
interezza da una cinepresa curiosa e mobile come gli occhi di chi scruta la
scena. Un' ampia facciata bucata da finestre spalancate e balconi, una porzione
di strada ai margini del campo, un modesto cortile. Un piccolo formicaio di
vite che scorrono, focolari domestici di cui si percepisce solo qualche
mozzicone di frase o le note di un malinconico pianoforte. In secondo luogo,
direi la posizione privilegiata del protagonista - James Stewart in una tra le
più valide interpretazioni della sua onorata carriera - costretto sulla sedia a
rotelle da un incidente ma nell'invidiabile condizione di avere una devotissima
ricchissima fidanzata (Grace Kelly, raffinata Venere di Hollywood, bella da far
commuovere), un gran scialo di tempo libero e un binocolo puntato su questo
microcosmo che è praticamente un open cinema dove in ogni finestra viene rappresentato
un genere (la commedia, il romance, il drammatico, ovviamente il giallo).
Questa posizione privilegiata è dunque immediatamente assunta anche dallo
spettatore. Terzo: l'intrigo al centro della storia, in cui è facile
immedesimarsi in virtù di questa stretta condivisione tra spettatore e
protagonista, che si sviluppa con una tecnica di "ingolosimento"
lento e progressivo, frame by frame. La presenza scenica di un grigio, bolso e
circospetto Raymond Burr in questo senso è superlativa, direi wellesiana. Quarto:
ovviamente, il deus ex machina. Alfred Hitchcock al pieno della sua maturazione
artistica; oltre alla magnifica intuizione nella scelta del soggetto di
Woolrich, il maestro 'apparecchia' tutto il profilmico con quella levità e
quella accuratezza che solo i grandi cineasti possono avere. Ogni porzione di
interno catturata racconta nel dettaglio la situazione, con perfetta sintesi, e
in questi mini-set i protagonisti recitano il loro piccolo film muto.
Quinto: il sonoro, che come in ogni buon giallo deve pesare quanto la
fotografia; qui abbiamo una sintesi di rumori e voci magistralmente
"addestrate" a tenere viva la suspance, oltre alle languide note del
Lisa's Theme di Waxman (che agli ascoltatori di vecchio jazz non può non
richiamare in maniera sorprendente il classico standard "Where or
when").
14. Amarcord (1973) di Federico Fellini

Emozioni a fior di pelle per la
gioia di averlo visto in una sala cinematografica grazie al restauro della
Cineteca di Bologna (lunga vita!). Un trionfo del colore, perfettamente
connaturato alla vitalità della pellicola, catturato dalla fantasmagorica
fotografia di Rotunno; questo signore di 92 anni ha pregiato della sua
supervisione le recenti operazioni di restauro. Colpisce la vis comica di
questo film, con la sua galleria di caratteristi irresistibili; penso alla
sequenza degli insegnanti, pura essenza del miglior cabaret all'italiana. Il
gusto dei sensi, dalla tavola al letto, che Fellini ha sempre celebrato
liberamente; Roger Ebert, tra i primi ammiratori di Fellini, per strappargli di
dosso la fastidiosa etichetta di "cinema d'autore" affermò
provocatoriamente che il maestro riminese era più vicino a Russ Meyer che a
Ingmar Bergman. Che dire poi della musica di Nino Rota. Sì, la musica
più che "le musiche", perchè in questo film viene riproposta
all'infinito la celeberrima nenia ipnotizzante, vagamente orientaleggiante,
malinconica, in tutte le salse e in diverse varianti. E non vorresti ascoltare
altro. E quell'atmosfera paesana ricreata magicamente, in un gioco di parodia e
di fantasia, con gli accenti sui grandi falò equinoziali, le contrade di paese
dove un avvocato cicerone (bellissimo volto cornacchiesco di Luigi Rossi) prova
a raccontarci una storia ma viene continuamente spernacchiato da qualcuno
(Fellini stesso). La poesia di una processione di lampare in mare aperto per
salutare il transatlantico, gigantesco e luminoso come un mostro marino che
emerge dal buio notturno. O di un casolare nei campi tra il frinire delle
cicale dove un matto sull'albero grida "Voio una doooonnaa!"
(eccezionale Ciccio Ingrassia, disconosciuto grande artista del nostro cinema),
una nebbia avvolgente come la morte, la neve che chiama improvvisamente tutti
fuori dal cinema dove si stava proiettando un film con Gary Cooper. Un film segnato
dalle stagioni, con la medesima semplicità della vita di borgo. Si ride e si
piange, si ama e si muore. Aggiungo in coda pure che Woody Allen trasse
ispirazione da questo film per il suo 'Radio Days', che io amo moltissimo. Sì lo so sono un
nostalgico... Che ci posso far?