Duecentotrentadue giorni di lettura, al passo di
un maratoneta zoppicante, sono la misura del mio lungo e straordinario viaggio
tra le pagine di Tolstoj. Sì, è un ritmo di lettura lentissimo e non ne vado
particolarmente fiero; tuttavia, se non altro, se ne deduce che anche a bassissimi giri si
può scalare una montagna. E poi, in ogni viaggio, più lenti si va più
particolari si possono cogliere.
Di romanzoni ne ho letti diversi, nella
mia vita; i volumi più poderosi di Dostoevskij, Joyce, Dickens, Hugo. Questo Guerra e Pace potrebbe anche superarli
tutti, non ho fatto un preciso conteggio delle pagine, ad ogni modo posso ben
dire che è uno dei romanzoni più titanici della mia vita, nonché in assoluto nel panorama della grande Letteratura.
Partiamo da un pregiudizio
diffuso: a proposito dei classici russi, si dice comunemente che Dostoevskij sia intenso e
cerebrale, mentre Tolstoj sia prolisso e moralista. E’ una visione assai
parziale e ingiusta; io amo il torvo Fëdor e le sue discese a capofitto nei
mali dell’animo, ma Tolstoj non è assolutamente da meno. Certo Lev è più
cavalleresco e marziale, amante delle digressioni piene e a tratti ampollose
come Hugo, ma la sua penna è affilata e precisa nell’intagliare tanto i campi
di battaglia quanto la profondità caratteriale dei personaggi, tanto le
dissertazioni storiche e filosofiche quanto i dialoghi più emozionanti e coinvolgenti.
Lev
Nikolàevič Tolstòj è uno che la guerra l’ha conosciuta bene. Per quattro anni, tra il
Caucaso e la Crimea, ha combattuto e visto morire maturando infine la
convinzione che la guerra non avesse affatto quell’aura epica di cui si
disquisiva nei salotti e che la carriera militare non facesse per lui,
scegliendo perciò - a imperituro beneficio di tanti suoi lettori - l’arte dello
scrivere. La sua esperienza personale è un bagaglio importante per la
ricostruzione della vita quotidiana di fanti e ufficiali, come traspare
evidentemente nelle efficaci descrizioni delle retrovie russe; ma il bagaglio
fondamentale, quello che segna nel profondo la grandezza di Guerra e Pace, è (come
sempre) la cultura.
Per fare un bel reportage basta l’occhio acuto e la penna facile, per scrivere
un’opera così imponente serve molto di più; occorre una visione storica profonda e articolata, sorretta da pile di libri,
fondata sulle biblioteche e sugli archivi più che sul campo di battaglia, sullo
studio più che sulla sciabola.
Guerra e Pace si sviluppa
essenzialmente attraverso due binari più o meno paralleli; Tolstoj alterna finzione
e Storia in un confine non sempre netto (perdonate il paragone forse
irriverente, ma a me qui viene in mente James Ellroy) incrociandole in più di
qualche occasione. Da un lato ci racconta le vicende personali di un gruppo di famiglie russe prima, durante e
dopo l’avanzata napoleonica del 1812, dall’altro ci accompagna negli eventi storici in senso stretto, dando
voce non di rado a autentici personaggi storici come lo stesso Napoleone, l’imperatore
Alessandro o il generale Kutuzov, ricreando con eccezionale plasticità le
battaglie di Austerlitz e Borodino, l’incendio di Mosca, le articolate
strategie miliari ora di un fronte ora dell’altro.
L’attenzione del lettore richiede
uno sforzo in più (cosa comune nei grandi Classici, sforzo di gran beneficio
aggiungo), la capacità di accettare nella sua interezza questa narrazione binomiale
lasciandosi guidare dalla penna sicura di Tolstoj. Come non si può scindere la
Storia dalle storie, così non è ammissibile “saltare le parti” in cui dobbiamo
mettere momentaneamente in stand-by le palpitanti vicende di Pierre, Andrej o Natal’ja
(che indubbiamente arrivano più dirette al cuore) per stagnare tra le manovre
dello scacchiere bellico. Questo è per antonomasia il romanzo storico. Vietato dunque eludere l’aggettivo.
Ma cosa è la storia per Tolstoj? Vi
dico subito che nel caso abbiate una macchina del tempo e vorreste andare a
chiederglielo di persona, beh, sappiate che non ne uscirete vivi. Vi tratterrebbe
per giorni e per notti discettando ogni minuzia; no, la sintesi non è certamente
tra i doni di questo straordinario scrittore. Ebbene proprio per questa sua
smisurata attitudine alla disquisizione (eccovi un mio neologismo fresco fresco:
disquisitudine), il barbutissimo Lev potrebbe
smuovere anche in voi, come è accaduto per me, i meccanismi più arrugginiti del
ragionamento. Tra le tante lampadine che mi ha acceso in testa, segnalo questa;
spesso siamo abituati a bignamizzare
gli eventi storici, per cui “Napoleone ha condotto la campagna di Russia”, “Napoleone
ha vinto qua, Napoleone ha perso là”. Ecco, nell’approssimazione uno può perdere anche tutta la vita, diceva un
altro grande russo, Pavel Florenskij; accettiamo solo informazioni semplici e
ridotte (e quale cura allora, in questo senso, la lettura di grandi Classici
come questo!). Tolstoj non accetta scorciatoie, perché tra il potere e la
volontà delle masse c’è una cascata di fattori. Trovo magnifico l’esempio della
battaglia di Borodino, che prima di leggere questo romanzo ritenevo
semplicemente la battaglia decisiva, che diede la svolta a favore dei russi.
Nel romanzo non appare mai chiaro l’esito della battaglia; del resto come capire a quel tempo chi
aveva vinto sul campo di battaglia? Non ci avevo mai riflettuto, ma è verissimo.
Solo l’esito finale di una guerra disegna, attraverso una rilettura spesso
eroica e chiaramente poco oggettiva, quelli che furono gli eventi cruciali.
Guardiamo inoltre alla figura del
generale Kutuzov, davvero emblematica. Prima di leggere il romanzo, mi
aspettavo un eroe. Sapevo che il villain
era chiaramente Napoleone e leggendo attendevo trepidante lo svelarsi del suo reale
antagonista russo. L’imperatore Alessandro, con tutta la sua aura dorata e il
suo impeto giovanile, visto come un angelo bianco a cavallo attraverso gli
occhi di Nikolaj Rostov (uno dei protagonisti, personaggio non propriamente
simpatico), non sembra mai ambire al titolo. Non resta che riporre ogni fiducia
sull’attempato, grasso e mezzo cieco generale Kutuzov, vecchia volpe che sa
mettere tutti al suo posto; attendista fino allo sfinimento, certo concorre
alla tattica che portò di fatto a una sorta di autodistruzione francese, ma
vuoi la sua andatura sciancata, vuoi la sua poca epicità, vuoi che mezza Russia
non lo sopportava, insomma non può certo indossare il mantello del supereroe. E
allora chi è l’eroe? Il popolo russo? Sì e no, anche no. La provvidenza
manzoniana che ha cambiato latitudine? Sì e no. C’è una forza che determina la Storia, un accumulo di fattori che nessuno
storico, scienziato, teologo, filosofo potrà mai tradurre fino in fondo. Forse
ci voleva un romanziere…
Una forza che si riesce a
cogliere solo attraverso il Romanzo? Sarebbe pazzesco. Ma non lo escluderei.
La Storia ha forti limiti, la
Storia si legge. Come un libro. E chi la scrive, ha letto a sua volta. Tutto si
interpreta, anche senza necessariamente prendere una parte; oggi mi sento un po’
più rinfrancato nel mio sconfinato amore verso la finzione, l romanzi, i
racconti, le poesie, i film. E quelli che leggono “solo i saggi perché parlano di cose vere” mi sembrano un po’ come
quegli stuccatori dell’efficacissimo paragone di Tolstoj i quali, essendo stati
incaricati di stuccare gli interni di una Chiesa, prendono a stuccare qualsiasi
cosa, finestre e fregi compresi, compiaciuti dell’assoluto sovrano biancore. Tutto
è vanità. Perfino lo stucco.
Un ultimo sguardo ora lo dedico
al cast di questa storia. Perdonate
il termine cinematografico, ma davvero leggendo le loro vicende mi andavo proiettando
un vero e proprio kolossal in testa (senza aver ancora visto nessuno dei film
che ne sono stati tratti, puntualizzo). Non c’è dubbio che il personaggio chiave
sia quel Pierre Bezuchov - con tanti chili di Tolstoj medesimo addosso – un po’
goffo, a volte pedante, di una intelligenza curiosa e dal buon cuore e che la
reginetta dell’Oblast’ sia la giovane e (inizialmente) frivola Natal’ja. Ma l’intera
galleria di personaggi è
straordinaria in ogni suo nobile o mužik, dalle
immancabili regine del salotto ai vecchi tirchi e livorosi come il magnifico
principe Nikolaj Bolkonskij (sarà un caso, ma a me questi vegliardi rimangono
sempre un po’ nel cuore – vedi il vecchio taccagno della Casa desolata), dalle piccole petulanti principessine bacchettone
come Marija a quelle intriganti e libertine come la fascinosa Hélène. Tutti
questi personaggi cambiano durante il corso della narrazione; gli eventi
stravolgono le loro vite, li trascinano raminghi attraverso Mosca deserta,
sotto i colpi di cannone o le brucianti ferite dell’amore, seppellendone più d’uno
(George R. R. Martin e il suo Trono di Spade avrà pure imparato da qualcuno) e
portando nascituri.
Lasciatevi trasportare nel cuore
tumultuoso dell’ottocento europeo. Di quando la Russia non poteva non dirsi
europea, tant’è che i ranghi più nobili parlavano spesso in francese e di
questo se ne accorgerà bene il lettore che non ha la fortuna di conoscere quella
magnifica lingua, essendo costretto a saltare alle note con una certa frequenza.
Di una Europa che andava formandosi bagnando la terra col sangue di moltitudini.
Realmente, come dice il poeta Handke, è difficile cantare un epos di Pace essendo la guerra tristemente più “fotogenica”;
ma proprio questa difficoltà ottiene alla lunga il risultato ancor più bello, almeno
per come ci è riuscito il nostro Leone Tolstoi (adoro le italianizzazioni, sono così d’antan),
il quale proprio nelle parentesi di Pace ha scolpito le più indimenticabili pagine
di umanità attraverso i suoi personaggi.
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