Inghilterra, anni ’30. Un gruppo
di nobili, ciascuno con la propria servitù al seguito, raggiunge la tenuta dei
McCordle (i coniugi sono Michael Gambon
e Kristin Scott-Thomas, la figlia è Camilla Rutherford) per una battuta di
caccia. C’è l’anziana e snob Constance, contessa di Trenhtam (Maggie Smith) accompagnata dalla
cameriera personale Mary (Kelly
MacDonald), ci sono gli Stockbridge (Charles
Dance e Geraldine Somerville)
con il valletto Robert Parks (Clive Owen),
i Meredith (Tom Hollander e Natasha Wightman), il produttore
hollywoodiano Morris Weissman (Bob
Balaban) assieme al celebre attore Ivor Novello (Jeremy Northam) e l’ambiguo valletto Henry (Ryan Philippe), i Nesbitt (James
Wilby e Claudie Blakley) a cui
si aggiungono per ultimi (con imperdonato ritardo) i dandy scavezzacollo Rupert
(Laurence Fox) e Trent (Jeremy Blond). All’allestimento della
cena presiede il maggiordomo Jennings (Alan
Bates) in cooperazione con l’algida governante Mrs. Wilson (Helen Mirren), la capocuoca Mrs. Croft
(Eileen Atkins) e una squadra di
domestici tra i quali la navigata Elsie (Emily
Watson). Dopo la caccia al fagiano dell’indomani, la forzata convivenza
rende sempre più evidente che sono in parecchi a intrattenere rapporti tesi col
bizzoso e bizzarro sir William McCordle, finché lo stesso non viene trovato
assassinato nella biblioteca. Accorrerà lo sherlockiano ispettore Thompson (Stephen Fry) per una classica indagine
in stile mystery inglese, a lato della quale emergeranno alcuni fantasmi del
passato.
Contenuti del film
Il film prende a prestito le
atmosfere de La Regola del Gioco (1939),
raffinata commedia di Jean Renoir in perfetto equilibrio tra il frufru e il più cupo dramma esistenziale
in cui aristocratici e servi tessono le loro trame notturne, e le tinte del
giallo classico d’indagine alla Poirot. Al centro vi è la contrapposizione o
meglio l' antitesi tra due classi sociali; da un lato la
nobiltà inglese con la sua esasperante etichetta e le sue più o meno segrete
piccinerie, dall’altro l’underground dei domestici con i loro intrighi, gossip
e tragedie celate. La prima sequenza ci mostra l’elegante e altezzosa contessa
Constance Trentham dalla bocca stretta e lo sguardo da civetta incartapecorita
che noncurante del temporale fa scendere dalla macchina la mite servetta Mary
per farsi aiutare a svitare un tappo; la ragazza non si scompone affatto,
rimarcando l’abitudine al comando, e traffica con il termos mentre la pioggia
le infradicia il vestito. E’ interessante il rapporto tra le due donne, le
quali pur non mettendo mai in discussione la distanza sociale che le divide, trovano
alcuni spazi di intimità nel pettegolezzo. Allo stesso modo per tutta la
pellicola lo spettatore è in grado di cogliere varie intersezioni extra
professionali tra servi e padroni, facendo crollare in più occasioni la corazza
di inappuntabilità dei più devoti al cerimoniale (si vedano la sbronza
dell’impeccabile Jennings o il crollo psicologico finale di Mrs. Wilson), se
non perfino far deflagrare tutta una architettura di menzogne con l’inequivocabile
gaffe rivelatoria della cameriera Elsie.
Un’ altra questione interessante
è l’annosa contrapposizione tra USA e Inghilterra. A rappresentare il
paese a stelle e strisce è il piccolo Morris Weissman (nome fittizio), produttore
ebreo della serie dedicata all’investigatore cinese Charlie Chan (franchise
reale); Morris è un ometto pacato, contradditorio (non partecipa alla caccia,
si dichiara vegetariano ma indossa un collo di pelliccia) con qualche
peccatuccio nascosto (una relazione omosessuale con il valletto Henry), ma la
sua vera “macchia” è soprattutto quella
di essere esponente di un mondo estremamente inviso a certa nobiltà
schizzinosa, il cinema. Memorabile la frecciata di Constance durante la cena,
che di fronte al rifiuto del produttore di svelare la trama dell’ultimo film
per non guastare la visione, risponde velenosa: “Non si preoccupi, nessuno qui
guarderà quel film”. Nei momenti concitati post omicidio, con gli ospiti
impegnati negli interrogatori con l’ispettore Thompson, Weissman rimarrà
impassibilmente attaccato al telefono per una lunga interurbana mediante la
quale disporrà le sue idee per il suo nuovo progetto. Parallelamente, il
valletto Henry smaschererà la sua reale identità (ottenendo il disprezzo dei
servi, che lo credevano dei loro), confessando la sua missione voyeuristica. Al
distacco sprezzante della upper class britannica, i mestieranti americani
rispondono con il distacco cinico dell’intento documentaristico. Come è ben
noto, il regista è ben lungi dall’essere un fiero rappresentante di
quell’americanità tronfia, che anzi ha sempre scudisciato volentieri, così come
non è mai stato l’alfiere di Hollywood dalla quale si è sempre tenuto distante;
in questo film sembra bearsi nello schiaffeggiare per benino entrambe le sponde
dell’Atlantico.
Il cast
Il cast è per buona parte
rigorosamente inglese. Al livello più alto troviamo le genuine interpretazioni
di Michael Gambon e Maggie Smith, che andrebbero ascoltati preferibilmente in
lingua originale per non perdere il loro magnifico accento british. La prova di Ryan Philippe ricorda molto vagamente l’irraggiungibile Bogarde de Il Servo di
Joseph Losey. Il goffo Stephen Fry risulta simpatico ma è anche abbastanza
stereotipico, mentre il personaggio di Bob Balaban ha un brio con tratti di
originalità. Intensa l’interpretazione canora delle belle composizioni di
Ivor Novello (attore realmente esistito, recitò per Hitchcock in The Lodger) da parte di Jeremy Northam.
Curiosità
Dopo la cerimonia degli Oscar
2002 l’unico raggiante del gruppo era lo scrittore Julian Fellowes (futuro
ideatore della fortunata serie tv Downtown Abbey), vincitore della statuetta
per la miglior sceneggiatura originale; Bob Altman disse a troupe e cast di
seguirlo nella sua villa in cui si teneva un party per perdenti, dove
divertirsi e ubriacarsi liberamente. In questo delizioso siparietto d’ ironia
c’è tutta la leggerezza irriverente di Altman nei confronti del sistema
hollywoodiano.
pubblicato su l'Armadillo Furioso
pubblicato su l'Armadillo Furioso
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