4. Il tesoro della Sierra Madre (1948) di John Huston
Ladies and gentlemen, ecco a voi
l' El Dorado del cinema d'avventura. Imperdibile gioiello di Hollywood, entra
prepotentemente nella mia top ten personale; John Huston ci narra della febbre
dell'oro a partire dalla vita grama di un trio di vagabondi americani che
sbarca il lunario tra elemosina e lavoracci giù a Tampico, nello stato
messicano di Durango. Tre vite in cerca di riscatto, tre avventurieri pronti ad
affrontare un lungo viaggio attraverso la sierra incendiata dal sole,
pullulante di tigri (così vengono impropriamente chiamati i felini messicani,
puma o giaguari che siano, anche nello script originale) e banditi (un Alfonso
Bendoya degno del miglior Sergio Leone), pur di scavare le ricche viscere dorate
della montagna. Ma oltre alla mitica sabbia luccicante troveranno il démone
della cupidigia, che può spingere fino alla follia... Interpretazioni a dir
poco colossali; partendo dal gradino leggermente più basso del podio (ma
parliamo sempre di quote siderali) metto Tim Holt dagli occhi bovini,
apprezzatissimo rampollo dei magnifici Amberson di Welles, qui nel ruolo del
buon ragazzone squattrinato dallo sguardo timido. Ad un passo dalla vetta il
roccioso Bogart, magnificamente fuori dai suoi canoni; le prende, ha un
caratteraccio e compie l'involuzione da hero a villain. In cima, paparino. Già,
il signor Walter Huston attore di lungo corso, padre del famoso regista, qui
incarna alla perfezione il vecchio cercatore d'oro, rude e legnoso ma buono e
saggio, calmo quando c'è aria di tempesta. Secondo me, eccezionale. John Huston
non è un regista che cerca la sorpresa visiva, ma intaglia come un navigato
artigiano la trama, impreziosendola con il primato della recitazione. Efficace,
lineare e probabilmente insuperabile nelle storie d'avventura.
3. Quarto potere (1941) di Orson Welles
Cosa si può fare con il bianco e
nero! Illuso chi pensa che solo una vasta gamma di colori può
creare magia; guardatevi il nero carico delle prime sequenze di Welles,
guardate come si affina e tende a un grigio quasi seppia nel cuore del film,
guardate l'ombra nei visi mentre il corpo è in luce, guardate come si illumina
un grigio con la luce naturale che filtra da un abbaino, come brillano le gocce
di pioggia nella notte buia. Pazzesco, arte pura. Già dalle prime sequenze, le
inquadrature sono di una bellezza gotica e struggente. Il palazzo di Xanadu
spicca in tutta la sua austera maestosità, protetto da un cartello: "No
trespassing".
Lo stesso cartello apparirà alla fine; "Vietato l'accesso". Sì, perchè nel mezzo c'è la folgorante parabola di Charles Foster Kane, un uomo talmente pubblico, talmente sfacciatamente pubblico che non gli si vorrebbe riconoscere la dignità di un aspetto nascosto, di un segreto mai svelato. Un segreto di nome Rosebud, protetto dal significato più intimo quel cartello... Non spendo nemmeno una parola sull'eleganza scenica di Orson Welles; guardatevelo. Personaggi che non abbandoneranno la mia mente; Leland, il tutore, un moralista fallito, un grillo parlante alcolizzato. E Bernstein, il direttore del giornale, un profilo da grande teatro, da cabaret di classe. Ma sono solo due perle in un baule tutto da scoprire, ve l'assicuro.
Gustatevi ogni sequenza come i quadri di una ricchissima pinacoteca. Prendetelo oggi, non ve ne pentirete.
Lo stesso cartello apparirà alla fine; "Vietato l'accesso". Sì, perchè nel mezzo c'è la folgorante parabola di Charles Foster Kane, un uomo talmente pubblico, talmente sfacciatamente pubblico che non gli si vorrebbe riconoscere la dignità di un aspetto nascosto, di un segreto mai svelato. Un segreto di nome Rosebud, protetto dal significato più intimo quel cartello... Non spendo nemmeno una parola sull'eleganza scenica di Orson Welles; guardatevelo. Personaggi che non abbandoneranno la mia mente; Leland, il tutore, un moralista fallito, un grillo parlante alcolizzato. E Bernstein, il direttore del giornale, un profilo da grande teatro, da cabaret di classe. Ma sono solo due perle in un baule tutto da scoprire, ve l'assicuro.
Gustatevi ogni sequenza come i quadri di una ricchissima pinacoteca. Prendetelo oggi, non ve ne pentirete.
2. America oggi (1993) di Robert Altman
Per quale motivo Robert Altman ha
un mercato home video così tisico in Italia? Senza la circolazione in dvd dei
suoi grandi film corali, abbiamo una cultura cinematografica monca; ignoro se
il problema sia la quotazione dei diritti d'autore o peggio una scellerata
scelta editoriale, resta il fatto che film come Nashville e Short cuts sono
pezzi da novanta, fondamentali nella loro unicità. Non so se esiste un altro
regista in grado di dare spessore vero ad una ventina di personaggi
contemporaneamente, a creare una ragnatela così perfetta di intrecci. Ogni
storia si collega ad un'altra mediante un'infinita gamma di scorciatoie - shortcuts
- nel disegno di un un quadro complesso e armonioso. Nashville è stato un
magnifico fiore selvaggio, un archetipo imperfetto – anche se talvolta
l'imperfezione può risultare più affascinante – di questo strabiliante maturo
mosaico di vite che è 'Short cuts'; partendo da un soggetto minimalista per
antonomasia (i racconti di Carver), Altman riesce a trasmettere allo spettatore
quello straniante effetto ottico mediante il quale da vicino metti a fuoco i
singoli tasselli, mentre allontanandosi solo di qualche passo prende forma una
visione d'insieme. Bisogna prendersi "qualche passo" dalla visione di
questo film; ti impegna le meningi anche dopo la visione, ti costringe ad
afferrare le immagini che hai visto, a convogliare nel calderone mentale le
frasi che hai sentito. Ti restituisce uno specchio frantumato della comunità
urbana di Los Angeles (ma come ogni buona pellicola ha il dono
dell'universalità, basta saper contestualizzare) con un utilizzo attento del
paradosso, funzionale ad una inquietante verosimiglianza. C'è probabilmente un
po' di esagerazione nel tranquillo weekend al fiume dei tre compagnoni che non
si fanno guastare la pesca dal cadavere di una ragazza, in bella (e macabra)
vista sul fondale; com'era forse esagerato il canto corale "It don't worry
me" davanti al traumatico omicidio in Nashville. Per Altman la verità
sembra non stare nel mezzo, ma agli estremi; la società si identifica meglio
nella sua folle ed irresponsabile ricerca dell'entertainment ad ogni costo.
Emergono dalle dolenti singolarità di questo film le crisi coniugali e quelle tra amanti, dove la "scomoda" o "ingombrante" presenza dei figli esaspera le divergenze; i bambini sono presenze poco invadenti, come la timida discrezione di Casey, che investito torna diligentemenete a casa per entrare in coma, oppure genuine come il piccolo Chad che ipnotizzato dalla dolce, quasi suadente litania "tuo padre è un figlio di puttana" da parte della madre (la sempre straordinaria Frances McDormand), reagisce con un disarmante sorriso, scuotendo semplicemente il capo. O innocenti spettatori del degradante lavoro della madre, telefonista di una hot line. O ancora sono un informe gruppo di marmocchi, come i pargoli del duro poliziotto Gene Shepard (un eccezionale Tim Robbins), esserini vocianti senza la dignità di una personalità propria e distinta, che pure continuano festosi a gridare: "E' tornato papà". Proprio mentre su L.A. piove il disinfestante dagli elicotteri per combattere la biblica invasione di mosche 'medfly' (fatto realmente accaduto nel 1989 in California), le relazioni tra coppie si fanno a dir poco avvelenate; il sesso diventa un'arma, un atto di accusa, l'arena di uno scontro senza pietà tra uomo e donna. Anche nel dipingere la solitudine dei suoi antieroi emerge la grande vena artistica di Altman, nel catturare i momenti in cui mettono a nudo la loro disperata esistenza. La carezzevole tristezza di un locale jazz per Earl (splendidamente funereo Tom Waits), la lucida e dispettosa gelosia di Stormy (magnetico Peter Gallagher), i piccoli raptus della violoncellista Lori Singer, perfino l'angosciosa attesa di Andie MacDowell che per me ha l'espressività di una bambola di porcellana.
In un film ci sono generalmente dei 'personaggi', qui mi sembrano emergere più nettamente delle 'personalità'; non è solo un giochetto di parole, secondo me il tocco registico di Altman butta realmente gli attori fuori dal confortevole nido della recitazione, pare quasi spingerli ad una sorta di outing sul ciglio di un burrone (qualche giornalista lo definì il "dittatore benigno del set").
Emergono dalle dolenti singolarità di questo film le crisi coniugali e quelle tra amanti, dove la "scomoda" o "ingombrante" presenza dei figli esaspera le divergenze; i bambini sono presenze poco invadenti, come la timida discrezione di Casey, che investito torna diligentemenete a casa per entrare in coma, oppure genuine come il piccolo Chad che ipnotizzato dalla dolce, quasi suadente litania "tuo padre è un figlio di puttana" da parte della madre (la sempre straordinaria Frances McDormand), reagisce con un disarmante sorriso, scuotendo semplicemente il capo. O innocenti spettatori del degradante lavoro della madre, telefonista di una hot line. O ancora sono un informe gruppo di marmocchi, come i pargoli del duro poliziotto Gene Shepard (un eccezionale Tim Robbins), esserini vocianti senza la dignità di una personalità propria e distinta, che pure continuano festosi a gridare: "E' tornato papà". Proprio mentre su L.A. piove il disinfestante dagli elicotteri per combattere la biblica invasione di mosche 'medfly' (fatto realmente accaduto nel 1989 in California), le relazioni tra coppie si fanno a dir poco avvelenate; il sesso diventa un'arma, un atto di accusa, l'arena di uno scontro senza pietà tra uomo e donna. Anche nel dipingere la solitudine dei suoi antieroi emerge la grande vena artistica di Altman, nel catturare i momenti in cui mettono a nudo la loro disperata esistenza. La carezzevole tristezza di un locale jazz per Earl (splendidamente funereo Tom Waits), la lucida e dispettosa gelosia di Stormy (magnetico Peter Gallagher), i piccoli raptus della violoncellista Lori Singer, perfino l'angosciosa attesa di Andie MacDowell che per me ha l'espressività di una bambola di porcellana.
In un film ci sono generalmente dei 'personaggi', qui mi sembrano emergere più nettamente delle 'personalità'; non è solo un giochetto di parole, secondo me il tocco registico di Altman butta realmente gli attori fuori dal confortevole nido della recitazione, pare quasi spingerli ad una sorta di outing sul ciglio di un burrone (qualche giornalista lo definì il "dittatore benigno del set").
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